Il viaggiatore è appena arrivato. Fiancheggia un bel palazzo che oggi, come un tempo, ospita di nuovo una banca straniera. Si ferma, getta la testa all’indietro e chiude gli occhi. Inspira a fondo e lentamente. Come cambia in fretta il profumo della libertà. La settimana scorsa a Bangkok, poi Hong Kong e Macao, due giorni fa Xiamen e ora Shanghai. Aerei, navi, corriere e treni.
Aceto e coriandolo. Oggi la libertà profuma di aceto e coriandolo. Riapre gli occhi, si concentra e poi riparte. Svolta l’angolo e si immerge in un sottopassaggio che brulica di mendicanti. La banconota che cade ai loro piedi mostra il volto di Mao, l’eroe del popolo che avrebbe dovuto salvarli. Non c’è riuscito, ma in fondo lo ammette anche la linea ufficiale del partito: il grande leader ha avuto ragione soltanto per il 70%.
Il viaggiatore riemerge in superficie per salire gli scalini del Bund. Si ferma lì, con lo sguardo oltre il fiume, verso la sponda di Pudong. Finalmente l’ha vista, le fa una foto e senza rendersene conto ne ha già scattate altre dieci. E’ la faccia rifatta della Cina che va ai mille all’ora, il paese dei nuovi cosmonauti, la prima donna, la nuova frontiera del millennio appena nato. E' al contempo il dragone di cui molti temono il futuro e la vacca che, per consolarsi nel presente, un po’ tutti vengono a mungere.
E’ la skyline della città nuova, con la torre della TV, il pungiglione del Jinmao, i grattacieli con gli uffici delle multinazionali e gli hotel di lusso. Il viaggiatore si ricorda di qualcosa che ha già visto. Forse a Singapore, o era Hong Kong? Se sfronda la scena di quei riflessi sull’acqua, potrebbe anche immaginare di stare di fronte ai distretti d’affari di Kuala Lumpur, Giakarta o Bangkok.
Eppure sa che non è la stessa cosa. Non era questo il gigante che non bisognava svegliare? Tende l’orecchio e ascolta, percepisce suoni non sempre familiari, ma di una cosa è sicuro: il gigante non russa. Il paese non dorme più, e un numero sempre più elevato di cinesi, fin dall’alba, sono già lanciati nella corsa per diventare ricchi. E' questo l’obiettivo glorioso indicato loro niente meno che da un altro grande leader: Deng Xiaoping.
Bund, questo termine inglese, non già come Shakespeare ma più simile a Kipling, coniato nelle Indie orientali, tra spezie ed elefanti, per descrivere un argine infangato. Anche Shanghai infatti, come l’India, ha un passato che sa di colonia. Di commercio e di soprusi, di battaglie e di eroi nazionali, figure immense, protagonisti di successi e disfatte, seminatori di speranza e terrore.
Un quarto di secolo di regime maoista non è bastato a cancellare l’impronta dell’occidente a Shanghai, una città che prima delle guerre dell’oppio e dell’arrivo dei britannici era soltanto un villaggio di pescatori. La concessione francese, il Bund, gli edifici in stile neoclassico, art deco e georgiano vengono oggi ripuliti e lustrati, esibiti orgogliosamente con tanto di descrizioni in inglese.
Ma la Cina ha anche scelto Shanghai per mostrare i suoi muscoli e per farne il simbolo del suo futuro glorioso. Oltre la sponda orientale del fiume Huangpu, proprio di fronte al Bund, l’intera area della nuova Pudong è stata rasa al suolo per far spazio agli elementi di quella skyline i cui riflessi sull’acqua si allugano come indici ammonitori verso il nostro viaggiatore. E’ il distretto che ospita la stanza dei bottoni del mondo finanziario cinese. Un centro che diventa ogni giorno più potente e che dovrebbe, nei piani delle autorità, raggiungere presto livelli superiori a quelli di Hong Kong, rimarginando così una ferita ancora aperta sull’orgoglio del paese.
Anche a Puxi, ad ovest del fiume, la città cambia volto ad un ritmo allucinante. Vi trova spazio il nuovo museo cittadino, ricco di reperti e hi-tech nel concetto. I centri commerciali di Nanjing Road, una luccicante e colorata via dei balocchi. E i ristoranti di lusso, i club esclusivi, i negozi di design e le gallerie d’arte del sofisticato complesso di Xintiandi. Un dedalo di viuzze tra le quali gli edifici del periodo delle concessioni sono stati rinnovati o ricostruiti. Tra di essi si aggirano, tra gli altri, i giovani rampolli dell’élite cinese. Indossano giacche dal taglio fino, portano acconciature già sperimentate in Giappone, i loro piedi sono fasciati dalle pelli più pregiate. Hanno già imparato ad assumere quell’espressione spregiudicata, sicura di sé e dei propri mezzi, che altri cinesi sfoggiano già da decenni nelle mete storiche della loro diaspora. Sono i figli dei membri della nomenklatura o degli uomini d’affari, coloro che stanno godendosi i frutti degli investimenti stranieri e dell’eccezionale boom economico del paese. Sono tra i pochi che da queste parti hanno il tempo - e le risorse - per dedicarsi allo sfizio delle griffe occidentali o alle nuove tendenze delle arti visive.
Nel bel mezzo di questo tempio della mondanità, di questo monumento al denaro e ai piaceri per pochi, è rimasto in piedi un piccolo edificio. Un po’ asfissiato, a guadagnarsi lo spazio a spallate tra tanto lusso, sembra la povera vittima di un’ironica coincidenza. Al suo interno nel luglio del 1921 un manipolo di sconosciuti visionari si riuniva in segreto, sfidando l’ira delle autorità, per fondare il partito comunista cinese. Sembra che tra di essi ci fosse anche un giovane rappresentante di una sezione di provincia. Il suo nome era Mao Zedong.
Benvenuti a Shanghai, questa è la Cina d’oggi: un posto in cui coesistono senza troppi drammi le pratiche di un capitalismo sfrenato e la retorica di un comunismo ormai morto e sepolto. E’ la culla di una nuova non-ideologia, di un compromesso assurdo.
Potremmo chiamarlo "capi-comunismo".
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