I cinesi sono un popolo che ha sempre amato, a volte fino all’ossessione, tutto ciò che è grande, o meglio grandioso. Pechino è un città in cui le prove di questa passione nazionale affondano le radici nel passato delle varie dinastie imperiali.
I lunghi biscioni dei tratti di muraglia che strisciano sulle colline macchiate dai colori caldi dell’inizio autunno ne sono soltanto l’esempio più noto.
Non da meno è infatti la maestosità Ming e Qing della città imperiale. Al suo interno vi è una scalinata di marmo il cui blocco centrale fu ricavato integralmente da un’unica roccia. Talmente grande da dover essere trasportato in città facendolo ingegnosamente scivolare per svariati chilometri su una pista di acqua ghiacciata.
Nel tempio dei Lama si annida una statua di Buddha – un record da Guinness dei primati – i cui 18 metri di altezza sono stati intagliati su un unico ceppo di legno di sandalo. Tra la serie infinita delle sue torri e dei palazzi antichi la città conserva inoltre un portico in legno lungo un chilometro, interamente decorato con centinaia di dipinti, una campana da 63 tonnellate, e poi clessidre e percussioni giganti utilizzate per scandire il ritmo delle ore, dei giorni e delle stagioni che con magnanimità l’imperatore concedeva ai suoi sudditi.
In tempi più recenti contributi importanti al gigantismo pechinese sono stati forniti dallo stesso Mao, grande leader ma mediocre urbanista, con quella maglia di strade larghissime che si sviluppano sulle direttrici nord-sud e ovest-est attorno a Tiananmen, la piazza più vasta del mondo.
“La monumentalità non è tanto una questione di dimensioni quanto una di proporzioni” spiegava l’artista colombiano Botero a proposito di alcune sue sculture esposte “all’aperto” nel centro di Singapore. E’ esattamente l’effetto che percepisce chi da Tiananmen osserva il ritratto del grande leader appeso alla Porta della Pace Celeste. O chi, arrivando alla Stazione ferroviaria occidentale, si ritrova sbalordito ad ammirarne la facciata, una via di mezzo tra un arco di trionfo e una porta muraria di epoca imperiale.
Ma Pechino non è soltanto un insieme di elementi giganti in continua espansione. Distraendosi un attimo, scordandosi la mappa in albergo, svoltando un angolo a caso, avventurandosi lungo quello che potrebbe sembrare a prima vista un vicolo cieco, si scoprono delle sacche intoccate della città di un tempo.
Sono gli hutong, analoghi cinesi ai vicoli dei nostri centri storici. Stradine strette, fiancheggiate da siheyuan – case con cortile di un piano soltanto. Serpenti che, come in un vecchio videogioco, si snodano ad angoli retti, intersecandosi, allargandosi in pance piene di negozietti e bancarelle, e restringendosi improvvisamente a imbuto per poi magari sorprenderti sbucando in un trafficato viale a sei corsie, o terminando addosso ad un muro di cemento.
Lungo gli hutong i pechinesi si abbandonano a quelle abitudini ataviche che nei grandi spazi di concezione imperiale, maoista o postmoderna non trovano più il loro habitat. Nel giro di poche decine di metri ci si imbatte in tavolini sistemati all’aperto attorno ai quali la gente gioca agli scacchi cinesi, a carte, a domino. Oppure si ammassa nascondendo una gara misteriosa su cui si scommette ferocemente. Angoli a misura d’uomo in cui giovani e vecchi stanno seduti da soli o in compagnia a fumare, leggere, “succhiare” rumorosamente un piatto di tagliolini, o a chiaccherare.
Questo labirinto delle tradizioni sembra persino essere rimasto l’ultimo santuario per chi utilizza quello che credevamo essere il mezzo preferito dai cinesi, quasi scomparso dalle strade della capitale: la bicicletta.
Di hutong ce ne sono per tutti i gusti. Chi non soffre di claustrofobia, si annoia a vedere cinesi che giocano a scacchi e preferisce le vibrazioni di un’area più commerciale, dove si può acquistare un’orologio o una giacca con quattro soldi, può provare a tuffarsi nel fiume umano che scorre lungo le viuzze a sud di porta Qianmen.
Ma questi reperti di un museo a cielo aperto di storia e costume, a tuttoggi così vitali, rischiano purtroppo di diventare una specie urbanistica in via di estinzione.
L’urbanizzazione pesante, la crescita vertiginosa dell’economia, la necessità di infrastrutture efficienti e moderne stanno facendo a brandelli queste antiche aree del centro.
Le case basse e i cortili vengono impietosamente abbattuti e sostituiti da complessi residenziali che vantano tutto ciò che manca alle siheyuang – i bagni, il riscaldamento, l’acqua calda, i parcheggi – tranne, ovviamente, il loro fascino.
Il governo, sotto le pressioni di organizzazioni locali e internazionali, è corso ai ripari dichiarando gli hutong del centro aree architettoniche protette. Purtroppo però, i nuovi piani di sviluppo sono delle miniere d’oro e c’è chi non è disposto a lasciarsi sfuggire l’occasione troppo facilmente.
Gli unici hutong che avranno un futuro saranno probabilmente quelli che riusciranno a garantirselo a colpi di profitti elevati. E’ proprio per questo che molte di queste casette si stanno dando una ripulita e si apprestano ad ospitare ristoranti, bar e negozi, rivolgendosi così al turismo per guadagnarsi il diritto di continuare ad esistere.
E’ una soluzione al problema che a molti di noi può far storcere il naso. Ma una lancia a favore del turismo e della sofisticazione che immancabilmente lo accompagna bisogna pur spezzarla. Non bisogna dimenticare infatti che senza di esso oggi la grande muraglia, il grande vanto del paese, sarebbe con ogni probabilità soltanto un cumulo di pietre e terriccio – irriconoscibile non soltanto dagli oblò delle navicelle spaziali, ma persino da pochi metri di distanza.
Nessun commento:
Posta un commento