Come sembrano lontani i giorni di Kunming, trascorsi tra caffè e tempo da buttare, speculazioni su temi qualunque e passegiate notturne.
Sono venuto in Malesia per insegnare uno dei miei vecchi corsi. Anzi due. Uno diurno e uno serale. Quest’ultimo mi tiene impegnato fuori orario per due o tre sere alla settimana, nonché il sabato. Per fortuna mi pagano con due contratti separati.
Inevitabile, a consuntivo di due settimane trascorse a Kuala Lumpur, mettere a confronto le donne cinesi e quelle malesiane. Per farlo mi servirò degli occhi, e dei commenti, di qualcun altro.
Uno dei miei studenti è un iraniano di 44 anni, che da più di venti vive a New York.
Ha deciso di diventare un consulente, per questo segue il corso. Il lavoro nel campo degli investimenti finanziari lo ha stancato. Un tran tran stressante. Svegliarsi nel cuore della notte per vedere che succede alla borsa di Londra. Poi tornare a letto, ma soltanto per qualche ora, fino che non apre quella di Singapore.
Sostiene di aver quasi perso la vista a causa delle ore trascorse a fissare i numerini che scorrono pedantemente sullo schermo di un computer. Cosa crederà di fare quando sarà diventato un consulente informatico?
A è uno che in campo sociale ci sa fare, come si suol dire. Una persona determinata, pronta a trovare soluzioni in fretta e a non fermarsi davanti alle prime difficoltà per raggiungere gli obiettivi che si prefigge.
Qualcuno gli ha spiegato che i consulenti senior impegnati in progetti internazionali guadagnano svariate centinaia di euro al giorno, che depositati nei loro conti Lussemburghesi dopo aver fatto un giro a Cipro, sono pure esentasse. E in più spese pagate, lusso, tempo libero. Vaglielo a spiegare che probabilmente sta parlando di qualche caso isolato.
Ricevuta l’illuminazione ha deciso di certificarsi e di proporsi immediatamente come consulente esperto. Ha un amico agente che gli fornisce i contatti e qualcun altro che provvede a munirlo di referenze, lettere di presentazione e interi paragrafi di curriculum. Ovviamente tutto falso.
Come dicevo è uno che ci sa fare. Uno, per dire, che non si ferma davanti alla prima barriera costituita da una segretaria, un portiere o un buttafuori che gli dicono di tornare più tardi. Uno che racconta storie, che ha sempre la risposta pronta. Un tipo anche generoso e simpatico, tutto sommato.
E che sicuramente, a differenza di me, non sa nemmeno che significato abbia la parola “timidezza”.
Pausa pranzo. In ascensore osservo due ragazze cinesi. Malesiane-cinesi. Carine, sexy, vestite bene. Del tipo che normalmente, causa timidezza, mi limito soltanto a osservare.
Arrivati al piano terra attraversiamo la lobby chiacchierando e usciamo dall’edificio per entrare nel forno umido del mezzogiorno equatoriale. “Scusami un attimo”, mi interrompe A. Con due passi rapidi raggiunge le due ragazze che stanno camminando proprio davanti a noi.
“Lavorate qui?”. Le ragazze rispondono ma sono evidentemente imbarazzate e assumono istintivamente un atteggiamento difensivo. Notate bene, “istintivamente”. Io mi farei probabilmente da parte, sempre che avessi trovato prima il coraggio di avvicinarle. A non si scompone e continua.
“Dove andate a mangiare? Noi siamo arrivati da poco e non conosciamo la città”. Col secondo tentativo ottiene la reazione più ovvia (cioè quella che soltanto ragionando a mente fredda mi sembra la più ovvia). Le ragazze sorridono, e cominciamo a chiacchierare. Pranziamo assieme. Torniamo all’edificio e ci salutiamo. Nessuno scambio di numeri di telefono. A è convinto che si tratti di una tattica vincente, che non mancherà di suscitare la loro curiosità. Io sono perplesso, non so se la sua scarsa dimestichezza con la società orientale giochi a suo vantaggio o meno. Se sono io quello che si comporta in base a un pregiudizio o se lui è un ingenuo un po’ presuntuoso che crede che tutto il mondo sia paese, cioè New York. Purtroppo finisco per dovermi dare ragione. E credetemi, in questi casi non ci tengo proprio.
A, dopo aver saltato brillantemente l’ostacolo della telefonista dell’azienda in cui lavorano le ragazze, è riuscito a lasciare un messaggio col suo numero di telefono. La più carina delle due, quella che lui aveva puntato, nonché la destinataria della sua nota, lo richiama. E per un paio di giorni A si illude che le sue sbandierate doti di psicologo abbiano fatto centro una volta ancora. E’ costretto a cambiare idea dopo tre o quattro scambi di sms.
La ragazza si dimostra sempre molto educata e a modo, ma non asseconda nemmeno una delle avance del mio studente. Il quale nel frattempo ha tentato qualsiasi cambio di modulo strategico, dal quattro-tre-tre, alla bi-zona, passando per il più moderno albero di natale. Le ha provate tutte quelle tecniche di cui si professa esperto. Una risposta breve, un po’ permalosa e avvelenata seguita da una ritirata apologetica. Poi un invito velatamente romantico e l’immediata battuta innocente a bilanciare.
Niente da fare. La ragazza ha una cena con i colleghi. “Facciamo un’altra volta?”. A la punzecchia e lei sparisce per un giorno. Lui ritorna docile come un agnello, ma la ragazza ha un impegno con alcuni familiari.
Io incontro per caso le ragazze un paio di volte, in un ristorante in cui vado spesso a pranzare. Mi invitano a sedermi con loro. I primi minuti trascorrono tra tra un paio di battute da mestierante e qualche silenzio imbarazzato (più che altro da parte mia). Poi loro cominciano a parlare in cinese e io mi sorprendo a intervalli regolari a contemplare sovrappensiero la skyline di Kuala Lumpur, o le fontane coi giochi d’acqua delle Torri Petronas. Alla fine attendo soltanto che loro si alzino per tornare al lavoro, così potrò estrarre dalla borsa il mio romanzo, ordinare un flat white con due biscottini, e godermi l’unico pomeriggio all’aria aperta della mia settimana malesiana. Meglio stare in compagnia silenziosa di se stessi a un tavolo da uno, che sentirsi soli e osservati, seduti a una tavolata di estranei. Suonerà come (e sarà pure) la consolazione di un “loser”, ma è esattamente così che mi sento in circostanze come queste.
Passiamo al secondo tentativo. Come dicevo il mio studente è una persona coriacea. Una sera A ed io siamo andati a mangiare un panino e bere un paio di birre dopo la fine della lezione. Nel disco-bar una banda di Tanzanesi suonava qualche famoso motivo in inglese e spagnolo. Era lunedì ma il locale era comunque pieno di gente giovane. A ha incontrato una ragazza di qui. Hanno ballato. Lui ci ha provato, lei gli ha dato corda, ma fino a un certo punto. Poi ha deciso di tornare a casa. A, memore del fallimento della tecnica utilizzata in precedenza, le ha chiesto il numero di telefono. Lei gli ha allungato un biglietto da visita, come avrebbe potuto fare un rappresentante di mobili da ufficio. A ha intascato il biglietto. Io avevo appena estratto dalla tasca dei pantaloni il pacchetto delle mie mentine preferite. Forti, verdi, piccole e piatte. La scatola è un rettangolino bianco, della dimensione di una carta di credito, soltanto un po’ più spessa. La ragazza mi porge le mani a conca, dove io faccio cadere un paio di mentine, e mi consegna con cortesia un suo biglietto da visita. Rimane un po’ sorpresa, con le mentine in mano, poi se le mette in bocca e mi sorride. Credeva che il bianco contenitore di plastica fosse il mio biglietto da visita.
Da queste parti hanno digerito a loro modo la ricetta occidentale del progresso. Persino un incontro in discoteca segue i dettami e i formalismi di un “meeting d’affari”.
A ha cercato inutilmente di contattare anche questa ragazza.
“Con questa vedrai che ci divertiremo. Assicurato, credimi”. Con l’uso della prima persona plurale probabilmente intendeva “io e lei”, non “io e te”.
La donna per un paio di volte ha fatto rispondere la segretaria o una collega dell’azienda in cui lavora. Ma abbiamo già detto che davanti a ostacoli del genere A non si arrende mai. Quando è riuscito finalmente a parlare con lei è cominciato il solito gioco del lavoro ai fianchi. Non i fianchi di lei, quelli di A. Mai una frase di troppo, mai un rifiuto netto. Giri di parole, appuntamenti annullati o rimandati, e tante tante scuse.
Ma non è finita qui. Entro la fine della prima settimana del corso, al centro commerciale delle Torri Petronas, A ci riprova. Avvicina una donna molto elegante. Camicetta bianca, scarpe di marca con tacchi alti, minuscola borsa del portatile, luccicanti monili e gioielli costosi. Pelle curata e liscia del color del Sahara, e capelli ondulati. A l’aggancia con la solita scusa dei pivelli appena sbarcati in città con la diligenza arrivata in mattinata. Alla ricerca di un saloon accogliente dove mangiare una bistecca alta tre dita e il miglior piatto di fagioli “in town”. Ma chi glielo fa fare a continuare così?
Pur di scrollarselo di dosso la donna fa di tutto per apparire cordiale e disposta a risentirlo.
E a tal proposito che cosa decide di fare? Ma ovvio: gli consegna un elegante biglietto da visita, di quelli con i caratteri luccicanti stampati in rilievo su un sottile cartoncino patinato. Firmato Cisco, project manager.
Per non essere fraintesa, rischiando invece di essere fraintesa due volte, ne consegna uno pure a me. Purtroppo in serata deve tornare a Singapore, bisognerà quindi rimandare l’immaginario seguito della storia a dopo il fine settimana. Ma è come se A l’avesse azzannata alla caviglia, e non la lascia andare facilmente. Si volta verso di me e mi rivolge un sorriso che sotto la maschera della sorpresa cerca soltanto di rosicchiare secondi. Nella mia mente lo immagino che mi dice: “Hai capito Fabi? Ma pensa te...”. Poi lo sento completare dal vivo la frase con uno squillante: “...Cisco!”. E mi continua a fissare mentre annuisce lentamente e in maniera studiata, con quel suo sorrisetto furbo e gli occhi strizzati a tre quarti. Io mi accorgo della tensione innaturale sulla pelle attorno alle mie labbra, mi specchio istintivamente tra me e me, e vedo chiaramente la mia faccetta da babbeo. Non solo non sono versato negli approcci di questo tipo, al centro commerciale. Ma non me la cavo nemmeno a posare come spalla per chi ci sa fare. Mi affretto a cancellare quel sorriso ebete dal mio volto, cambiando espressione. E in silenzio cerco di comunicare ad A che è meglio se si arrangia da sé.
Quando è convinto di aver lasciato un segno indelebile sulla memoria della donna, che con più di metà del corpo ormai già da un pezzo si è preparata a incamminarsi, si decide a lasciarla andare.
Dal lunedì seguente comincia la solita sequenza di tentativi che si susseguono con un grado sempre crescente di disperazione. E di delusioni scottanti. Dal progressivo deteriorarsi del tono usato negli sms, fino allo strappo finale. Mi riferisco ovviamente allo strappo del biglietto da visita, finito in pezzettini finissimi nell’elegante cestino delle immondizie che posa discreto in un angolo dell’appartamento executive in cui alloggia A, all’Ascot di Kuala Lumpur.
A questo punto A sbotta. All’inizio se la prende con i formalismi inutili. “Che sono ‘ste cazzate professionali? I biglietti da visita, le segretarie che rispondono al telefono, le maniere da bon-ton. Io vivo in America, so cosa significha comportarsi in maniera professionale. Tutte queste stronzate non hanno alcun senso se poi il fine ultimo è quello di evitare ipocritamente chi cerca di mettersi in contatto con te”. Infine si spinge anche oltre.
Si trova in un locale esclusivo all’interno di un lussuoso hotel. La sua mano entra accidentalmente in contatto con quella di una ragazza mentre entrambi stanno ballando. Questa si ritrae seccata e gli rivolge un’occhiataccia. “Ma che cazzo vuole questa? Siamo in una pista da ballo o no? Mica l’ho fatto apposta. E poi chi lo dice se sono stato io a urtarla o lei a urtare me?”. Ha ormai completamente perso l’ottimismo che accompagnava i suoi tentativi di socializzare con le ragazze malesiane durante la sua prima settimana a Kuala Lumpur.
In un certo senso lo capisco. Ho provato anch’io spesso lo stesso fastidio quando ad esempio una ragazza, soltanto perché il tuo sguardo ha incrociato il suo e vi si è soffermato per più dell’occasionale attimo, si è ritratta come se le si fosse parato davanti un grizzly arrapato. Rivolgendoti poi lo sguardo schifato di chi ha appena stretto la mano a un tizio che l’aveva prima immersa in un bidone di catarro. Ci si arrabbia, e spesso si resta pure senza parole, increduli e incapaci di pretendere almeno un civico rispetto.
La Malesia, se osservata attraverso il filtro della sua popolazione femminile, appare soltanto come una versione più sofisticata e falsamente progredita della Cina. Bisogna capire che, sia qui che lì, per comunicare un rifiuto non si dice mai chiaramente di no. Soltanto i metodi sono in apparenza diversi.
In Cina la rubrica telefonica si riempie ogni mese di decine di numeri. In Malesia è invece il portafoglio a gonfiarsi sotto la pressione di variopinti biglietti da visita. Gli uni e gli altri non porteranno nella maggior parte dei casi a stabilire alcuna relazione duratura. Sono soltanto una versione un po’ ipocrita di un messaggio d’addio.
Alla fine, quando si cercano di comprendere le dinamiche sociali di un posto alieno basta soltanto imparare a interpretare dei segnali. Purtroppo però, in questo compito apparentemente semplice, né dizionari né frasari vi saranno d’aiuto alcuno.