Percorro nel silenzio il marciapiedi di Wen Lin Jie, mentre strada, cielo, e osteria ambulante, passano attraverso diverse gradazioni di grigio, sempre più chiare. Il marciapiedi è sporco, ci sono tutti i rifiuti, gli sputi e gli altri fluidi di un giorno e di una notte cinesi. Gli spazzini non sono ancora passati a pulirlo. E’ presto ancora, le sei e qualcosa, di mattina. Non sono uscito per una corsetta prima della colazione. Sto rientrando a casa. La mia giornata finisce qui, mentre comincia quella di chi si siede sugli sgabellini del ristorante ambulante per mangiare focacce e frittate cinesi.
Faccio spesso mattina, quando non ho nulla da fare il giorno dopo. Non che la notte la trascorra sempre facendo qualcosa di molto interessante. E’ più che altro una questione di atmosfera.
C’è però qualcosa di vagamente oltraggioso in questi rientri all’alba, o anche più tardi.
Passare di fianco a questo signore di mezza età, che prepara il fuoco e sistema un tavolino con tre sgabelli, su cui serve la colazione a chi si sveglia presto per andare a lavorare. Osservare dalla finestra della mia camera, mentre mi spoglio, gli anziani che fanno esercizio sulle rive del lago. Ascoltare poi, mentre sto già sdraiato a letto, il plotone di soldati che corrono, sbattendo la suola del destro e cantando un coretto. E il frastuono, come una cascata d’acqua modificata dal Doppler, di un carrello spinto da un venditore diretto al mercato. Sedato dal mantra ipnotico del megafono di un arrotino, che si intreccia alla voce metallica che annuncia la prossima fermata dell’autobus mattiniero.
Sarà il fatto di essere stato educato da genitori che, come tutta questa gente, si svegliano molto presto per andare a lavorare. Sarà. Ma devo ammetterlo, mi sento molto fortunato, e un po’ in colpa.
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