Il traghetto scivola senza rollio né beccheggio dall’isola di Koh Samui a Surat Thani. Ci troviamo nel profondo del golfo Siamese.
La barca rallenta. Sollevo la schiena appiccicosa dal sedile in finto velluto. Dal ventilatore giapponese si sviluppa l’unico cono in cui mi sono riuscito a rifugiare per sfuggire alle fauci di questo forno tropicale. Un’afa snervante. Nemmeno sul vasto ponte si riesce a trovare il sollievo di una brezza di crocera.
Il pilota manovra facendo percorrere allo scafo delle lente mezzelune di avvicinamento al legno del molo.
Una colonna di pneumatici riveste una delle travi della struttura. La gomma è sgualcita e ridotta a brandelli in vari punti. Sicuramente i copertoni vengono sostituiti con regolarità. Non riesco però a immaginare come, dal momento che il telaio in legno non fornisce vie di fuga.
Assieme ad altri passeggeri osservo dal parapetto la complessa manovra di avvicinamento. Calcolo a spanne la lunghezza dello scafo. Saranno circa quaranta metri.
La parete arrugginita del traghetto si adagia sul più malmesso dei pneumatici. La gomma viene compressa, spremuta e poi stirata. Alcuni frammenti di staccano e precipitano muti tra le piccole onde.
Facendo perno sulla colonna di legno e copertoni il traghetto si mette in linea col molo e approda. Si abbassa il portellone e le prime auto cominciano ad uscire. Sul pontile un blocco di juta e terriccio sbuffa nuvolette di polvere al passaggio di ogni veicolo. Tutto riflette il grigio del cielo. Le nuvole che lo affollano da una decina di minuti non alleviano le morse del calore.
Borse in spalla traballo sulla passarella, attraverso il pontile che cigola e percorro il corridoio coperto che ci porta al piazzale in cui risaliremo sull’autobus partito da Samui.
Passo dopo passo, senza volare, percorro a ritroso la penisola sud-est asiatica. Samui-Surat, Surat-Hua Hin, Hua Hin-Bangkok. Zig-zagando tra pomeriggio, palme, notte e baracche. Con l’acqua e la polvere sotto le scarpe. Il viaggio è noia, il viaggio è nuova linfa vitale.
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