Attraversano la strada, schizzando da un marciapiedi all’altro. Dal minimarket all’entrata dell’hotel. Dall’ingresso del vicolo alla curva della strada. Sempre un po’ affrettati, con la schiena dritta e il mento alto. Come le dirigenti delle multinazionali, che di mattina, poco prima delle nove, coprono di gran lena la distanza tra la fermata della monorail e gli ascensori dell’azienda.
Ma è quasi mezzanotte e loro non sono né dirigenti né donne, nel senso stretto del termine. Sono i mak nyahs, i transessuali malesi, che non si impegnano molto per apparire ciò che non sono. Quest’area di Kuala Lumpur – Bukit Bintang – non è il Golden triangle, dove i transgender thailandesi o filippini ronzano attorno al Beach club, confondendosi tra le prostitute. Qui nessun occidentale scambierebbe mai, nemmeno dopo una serata di whisky e canne, un travestito per una ragazza alta e bella.
Voce grossa, spalle larghe, niente forme. E tanto orgoglio, tanta voglia di apparire perfettamente inseriti e dignitosi. I mak nyahs ce l’hanno scritto sulla faccia e sulle falcate: I belong here. Un desiderio sfrenato di accettazione e rispetto. Sembra un triste segnale: maggiore la smania, più forte la frustrazione.
Ci sarà chi, credendo di poter spiegare qualsiasi fenomeno sociale puntando il dito sugli “altri” o sulla “collettività”, dirà che il loro comportamento è una reazione al contesto, ad una società che se da un lato diventa più ricca, dall’altro si fa superficiale e borghesotta. Forse. Molto probabilmente questo c’entra qualcosa.
Altri per anni hanno fatto circolare una leggenda, smentita da alcune recenti ricerche, secondo la quale i transessuali sarebbero vittime di famiglie musulmane che dopo una lunga serie di figli maschi educano l’ultimo genito come se fosse una bambina.
Ma tutto ciò non conta molto, forse niente. Perché questa non è soltanto la percezione dei mak nyahs, o un sistema di relazioni sociali che si può cambiare con un po’ di buona volontà e tolleranza. Questa per loro è la realtà, per niente virtuale. Un marchio, un dato di fatto. Sono loro stessi il dato di fatto.
E quella disinvoltura affettata, quella posa teoricamente dignitosa, invece di mimetizzarli li mette ancor più in evidenza. E’ un po’ come osservare degli esquimesi nel deserto. Di certo più fuori contesto dei loro colleghi (in quanto a prostituzione) stranieri del beach club. I quali magari ti si avvicinano e ti ammiccano, ti tirano un bacio o un pizzicotto, ti mettono in imbarazzo e a volte ti infastidiscono. Ma mai ti fanno pensare che stiano cercando una dignità diversa da quella che si auto riconoscono nell’ambiente che frequentano.
Questo può piacere o no. Non credo sia importante. Alla fine è l’effetto che conta. In fondo è la loro realtà, non la nostra.
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