Stiamo fermi ad osservare il grande foro sul tavolo, ancora vuoto. Un cameriere arriva camminando come un pinguino. Regge tra le gambe un pesante vaso di argilla colmo di carboni ardenti e con l’ultimo sforzo lo sistema nella sede. Poi ci infila sopra un cilindro metallico che funziona da base per l’ultima parte del sistema: un tappo-griglia che assomiglia ad un monte. O meglio ad un castello conico circondato da un fossato. Con un tocco esperto una cameriera versa nel fossato un paio di mestoli di un brodo che pesca da un pentolino che lascia poi sul nostro tavolo. Il resto del liquido servirà a rabboccare la parte della zuppa che evaporerà durante la cena.
E’ un ristorante in stile mukata: meno di tre euro per un buffet illimitato di manzo, pollo, maiale, pesce, molluschi, granchi, seppioline e calamari giganti, gamberetti, verdura, erbette, tofu e altre pietanze asiatiche di cui non conosciamo il nome. Il prezzo esclude la birra, che si può comprare per meno di un euro a bottiglia grande. Include invece una serie di dessert thailandesi a base di cereali, nonché il gelato.
Cominciamo poggiando sul cucuzzolo del “monte” tre fette di lardo il cui grasso, colando tra le fessure lungo le pendici, scivolerà fino ad adagiarsi sulla zuppa, insaporendola e lubrificando al contempo il metallo della griglia. Ci poggiamo sopra le fettine di carne ad arrostire. Poi versiamo nel brodo le verdure, i filetti di pesce, le seppioline e il tofu. Quindi consegniamo alla cameriera il gamberi, i calamari giganti e i granchi che lei va a cucinare su una griglia a parte, molto più grande di quella che sta sul nostro tavolo.
E’ un ristorante semplice, una specie di grande capannone con varie file di tavoli del tipo appena descritto. Le pietanze sono sistemate sopra un lungo banco che taglia l'ambiente in due parti uguali. Un folto gruppo di camerieri passa in continuazione a riempire i contenitori che si stanno per svuotare. Un posto molto “thailandese”, non turistico, in cui arrivi soltanto se qualcuno del posto te lo ha consigliato.
E’ un ristorante in stile mukata: meno di tre euro per un buffet illimitato di manzo, pollo, maiale, pesce, molluschi, granchi, seppioline e calamari giganti, gamberetti, verdura, erbette, tofu e altre pietanze asiatiche di cui non conosciamo il nome. Il prezzo esclude la birra, che si può comprare per meno di un euro a bottiglia grande. Include invece una serie di dessert thailandesi a base di cereali, nonché il gelato.
Cominciamo poggiando sul cucuzzolo del “monte” tre fette di lardo il cui grasso, colando tra le fessure lungo le pendici, scivolerà fino ad adagiarsi sulla zuppa, insaporendola e lubrificando al contempo il metallo della griglia. Ci poggiamo sopra le fettine di carne ad arrostire. Poi versiamo nel brodo le verdure, i filetti di pesce, le seppioline e il tofu. Quindi consegniamo alla cameriera il gamberi, i calamari giganti e i granchi che lei va a cucinare su una griglia a parte, molto più grande di quella che sta sul nostro tavolo.
E’ un ristorante semplice, una specie di grande capannone con varie file di tavoli del tipo appena descritto. Le pietanze sono sistemate sopra un lungo banco che taglia l'ambiente in due parti uguali. Un folto gruppo di camerieri passa in continuazione a riempire i contenitori che si stanno per svuotare. Un posto molto “thailandese”, non turistico, in cui arrivi soltanto se qualcuno del posto te lo ha consigliato.
E’ la seconda volta che mangio qui. Ho proposto ad Aviv di venire a cenarci perché so che lui è sempre a caccia di esperienze del genere e...e perché la prima volta mi era rimasto un po’ il boccone in gola.
A dire il vero era andato tutto bene fino alle ultime foglioline di verdura. Mi era piaciuto il posto, il cibo, la maniera originale di prepararlo, il dover ordinare parlando in thailandese, il sorriso dei camerieri, schietto, non ancora assuefatto alle frotte di turisti che soprattutto in questo periodo prendono d’assalto la deliziosa città. E pure la compagnia, fino appunto a quelle dannate ultime foglie di verdura bollita. Poi successe qualcosa, e ovviamente l’insalata non c’entrava nulla, se non come spartiacque tra una bella serata e tre quarti d’ora da dimenticare. Che infatti successivamente ho cercato di mettermi alle spalle e in fondo allo stomaco con non so quante altre birre mandate giù di fretta in un paio di locali aperti fino a tardi.
Quella prima volta mi ci aveva portato Joyce, che ci era già venuta con dei suoi amici di qui. Joyce è una ragazza cinese che conosco dai tempi in cui vivevo a Kunming. Gestisce un’azienda di import-export e viene frequentemente a Chiang Mai per acquistare prodotti tessili e artigianato locale. La incontrai qui a dicembre, per caso. Mi vide passeggiare mentre stava seduta ad un caffè, e corse fuori a chiamarmi. Chiacchierammo un po’ e la sera stessa mi portò a mangiare mukata.
Joyce è una ragazza carina, simpatica, che parla un buon inglese. Senza avere in mente qualcosa di preciso sui possibili sviluppi della serata, mi svolazzava addosso un velo di buonumore e percepivo un vago senso di un’aspettativa non meglio identificabile. Per uno come me, abituato ad uscire da solo la maggior parte delle volte, a caccia di avventure e botte di vita, uno che si annoia nelle uscite a due non appena l’aria tarda a caricarsi di elettricità, per uno così questo era abbastanza per poter definire quella una bella serata, originale, di quelle che non capitano spesso.
Mentre con le bacchette rovistavo tra gli ultimi gambi di verdura mi accorsi che erano rimasti sul fondo della zuppa alcuni pezzi di tofu.
A dire il vero era andato tutto bene fino alle ultime foglioline di verdura. Mi era piaciuto il posto, il cibo, la maniera originale di prepararlo, il dover ordinare parlando in thailandese, il sorriso dei camerieri, schietto, non ancora assuefatto alle frotte di turisti che soprattutto in questo periodo prendono d’assalto la deliziosa città. E pure la compagnia, fino appunto a quelle dannate ultime foglie di verdura bollita. Poi successe qualcosa, e ovviamente l’insalata non c’entrava nulla, se non come spartiacque tra una bella serata e tre quarti d’ora da dimenticare. Che infatti successivamente ho cercato di mettermi alle spalle e in fondo allo stomaco con non so quante altre birre mandate giù di fretta in un paio di locali aperti fino a tardi.
Quella prima volta mi ci aveva portato Joyce, che ci era già venuta con dei suoi amici di qui. Joyce è una ragazza cinese che conosco dai tempi in cui vivevo a Kunming. Gestisce un’azienda di import-export e viene frequentemente a Chiang Mai per acquistare prodotti tessili e artigianato locale. La incontrai qui a dicembre, per caso. Mi vide passeggiare mentre stava seduta ad un caffè, e corse fuori a chiamarmi. Chiacchierammo un po’ e la sera stessa mi portò a mangiare mukata.
Joyce è una ragazza carina, simpatica, che parla un buon inglese. Senza avere in mente qualcosa di preciso sui possibili sviluppi della serata, mi svolazzava addosso un velo di buonumore e percepivo un vago senso di un’aspettativa non meglio identificabile. Per uno come me, abituato ad uscire da solo la maggior parte delle volte, a caccia di avventure e botte di vita, uno che si annoia nelle uscite a due non appena l’aria tarda a caricarsi di elettricità, per uno così questo era abbastanza per poter definire quella una bella serata, originale, di quelle che non capitano spesso.
Mentre con le bacchette rovistavo tra gli ultimi gambi di verdura mi accorsi che erano rimasti sul fondo della zuppa alcuni pezzi di tofu.
“Ne vuoi un po’?” chiesi a Joyce.
“No, non mi piace il tofu”
“Ma dai! Tutti i cinesi mangiano tofu. E’ come trovare un italiano a cui non piace la pasta, un francese che non mangia baguette, uno spagnolo a cui fa schifo il jamon serrano. Non ci credo”
“No, hai ragione. E’ che questo è tofu giapponese. Lo odio...”
Più tardi, quando ero ormai da solo, fino a quando l’ennesima birra non spazzò via la sequenza di pensieri che si era srotolata nella mia mente dal ristorante al locale buio e pieno di fumo in cui mi trovavo, lasciando il campo aperto ad altre elucubrazioni dal carattere più leggero e dai contorni meno netti, fino a quel momento non so quante possibili risposte ho provato a formulare per scoprire se e come sarebbe stato possibile incanalare la serata su binari completamente diversi.
“Ma questo tofu non è giapponese”
Più tardi, quando ero ormai da solo, fino a quando l’ennesima birra non spazzò via la sequenza di pensieri che si era srotolata nella mia mente dal ristorante al locale buio e pieno di fumo in cui mi trovavo, lasciando il campo aperto ad altre elucubrazioni dal carattere più leggero e dai contorni meno netti, fino a quel momento non so quante possibili risposte ho provato a formulare per scoprire se e come sarebbe stato possibile incanalare la serata su binari completamente diversi.
“Ma questo tofu non è giapponese”
Oppure: “Paghiamo?”
E la sua variante: “Ho i crampi alle gambe, ci alziamo?”
O magari: “Allora ‘sto tofu me lo pappo io!”
Credo che sotto l’effetto afrodisiaco dell’alcol abbia provato pure il percorso logico che sarebbe scaturito da un’audace: “Allora? Si va in camera tua?”
Risposte che non ho dato, perché non mi sarebbero mai potute venire in mente dopo un’uscita come quella. Come fare a non concentrarsi su quelle sue ultime due parole? Sulla cattiveria con cui me le aveva sputate in faccia. A me, un italiano, uno che non ha niente a che fare col Giappone. E al ristorante, mentre ci stavamo divertendo, in Thailandia, a varie ore di volo da Tokyo e Nanchino e a tre generazioni di distanza dai tragici avvenimenti a cui voleva riferirsi.
Risposte che non ho dato, perché non mi sarebbero mai potute venire in mente dopo un’uscita come quella. Come fare a non concentrarsi su quelle sue ultime due parole? Sulla cattiveria con cui me le aveva sputate in faccia. A me, un italiano, uno che non ha niente a che fare col Giappone. E al ristorante, mentre ci stavamo divertendo, in Thailandia, a varie ore di volo da Tokyo e Nanchino e a tre generazioni di distanza dai tragici avvenimenti a cui voleva riferirsi.
Già, perché l’odio di Joyce non era rivolto soltanto, o proprio per nulla, all’incolpevole tofu. Era rivolto al Giappone, ai giapponesi o, come ha specificato più tardi, al governo giapponese. O all’idea che il governo di Pechino vuole che i cinesi si facciano del governo giapponese. Joyce è infatti il risultato di una forma soft di lavaggio del cervello, di educazione all’odio. Un sistema che agisce sulla mente dei cinesi fin da quando sono fanciulli.
L’odio viene trasmesso ai cinesi in famiglia, a scuola, dalla TV, dai giornali e dalla radio, dall’insieme dei pedanti film patriottici della resistenza all’occupazione nipponica, dalle interviste mirate, dal modo in cui si insegna la storia, dalle manifestazioni studentesche di protesta che non si sa fino a che punto siano spontanee o pilotate. Ma questa è una differenza senza alcuna rilevanza, perché qualche migliaio di giovani come Joyce, pronti ad andare a sfogare in piazza il loro odio genuino e la loro voglia di vendetta per torti non direttamente subiti, in Cina si trovano senza alcun problema. E non c’è sicuramente bisogno di istruirli su come questi sentimenti debbano essere espressi, dopo che glielo si è insegnato per tutta la vita.
Ad uno straniero che vive o viaggia in Cina capita continuamente di doversi sorbire il pistolotto dell’ingiustizia di un Giappone che dopo tanti anni è ancora restio ad assumersi le proprie responsabilità per le atrocità commesse durante il periodo dell’occupazione.
L’odio viene trasmesso ai cinesi in famiglia, a scuola, dalla TV, dai giornali e dalla radio, dall’insieme dei pedanti film patriottici della resistenza all’occupazione nipponica, dalle interviste mirate, dal modo in cui si insegna la storia, dalle manifestazioni studentesche di protesta che non si sa fino a che punto siano spontanee o pilotate. Ma questa è una differenza senza alcuna rilevanza, perché qualche migliaio di giovani come Joyce, pronti ad andare a sfogare in piazza il loro odio genuino e la loro voglia di vendetta per torti non direttamente subiti, in Cina si trovano senza alcun problema. E non c’è sicuramente bisogno di istruirli su come questi sentimenti debbano essere espressi, dopo che glielo si è insegnato per tutta la vita.
Ad uno straniero che vive o viaggia in Cina capita continuamente di doversi sorbire il pistolotto dell’ingiustizia di un Giappone che dopo tanti anni è ancora restio ad assumersi le proprie responsabilità per le atrocità commesse durante il periodo dell’occupazione.
Che si sia trattato di atrocità è assolutamente vero. Basta visitare i musei di guerra di Nanchino o Harbin per rendersene conto. E che alcuni personaggi di spicco in Giappone si comportino in modo a dir poco irrispettoso nei confronti delle vittime di tali atrocità pure. E anche che il governo giapponese ha spesso utilizzato delle politiche poco limpide nella gestione della memoria di quel periodo storico. L’esempio più recente è la revisione dei manuali di storia utilizzati nelle scuole giapponesi, atto che ha scatenato l’ultima grande ondata di indignazione cinese pochi anni fa.
Ma c’è davvero bisogno di esasperare gli animi fino al punto di spingere una ragazza cinese carina, educata, colta, ad utilizzare nel 2008, a sessantanni dal termine dell’occupazione, un tono violento e provocatorio nel bel mezzo di una cena con un amico occidentale, a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi degli eventi? In un paese che pur avendo anch’esso subito lo stesso destino (il ponte sul fiume Kwai si trova a Kanchanaburi, non lontano da Bangkok e la strada che da Chiang Mai porta a Pai è stata costruita durante l’occupazione) sembra essere riuscito a voltare pagina e, pur senza dimenticare il passato, ha messo da parte gli antichi rancori.
Quella sera mi sono illuso di poter rispondere alla provocazione in maniera pacata, cercando di stemperare gli animi, magari utilizzando pure una leggera dose di spirito. Ma mi sono scontrato con un fiume d’odio in piena. E’ stato come cercare di fermare un treno in corsa con una transenna di plastica.
Ma c’è davvero bisogno di esasperare gli animi fino al punto di spingere una ragazza cinese carina, educata, colta, ad utilizzare nel 2008, a sessantanni dal termine dell’occupazione, un tono violento e provocatorio nel bel mezzo di una cena con un amico occidentale, a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi degli eventi? In un paese che pur avendo anch’esso subito lo stesso destino (il ponte sul fiume Kwai si trova a Kanchanaburi, non lontano da Bangkok e la strada che da Chiang Mai porta a Pai è stata costruita durante l’occupazione) sembra essere riuscito a voltare pagina e, pur senza dimenticare il passato, ha messo da parte gli antichi rancori.
Quella sera mi sono illuso di poter rispondere alla provocazione in maniera pacata, cercando di stemperare gli animi, magari utilizzando pure una leggera dose di spirito. Ma mi sono scontrato con un fiume d’odio in piena. E’ stato come cercare di fermare un treno in corsa con una transenna di plastica.
Non ricordo di aver detto alcunché di offensivo, di aver mai alluso ai sospetti di cui parlavo prima. Ma non c’era niente da fare, anche la più politically correct e innocente delle mie osservazioni o domande la irritava sempre più.
“Il termine odiare mi sembra molto forte”
“Il termine odiare mi sembra molto forte”
“Non è usato a sproposito, si tratta proprio di odio, contro il loro governo, contro quello che fa...anzi no...è...è...proprio odio contro tutto ciò che ha a che fare col Giappone e coi suoi abitanti!”
“Ma dovrà pure arrivare il momento di voltare pagina...”
“Non chiedere mai ad un cinese di dimenticare. Mai! Non potremo mai dimenticare fino a che loro si comportano così!”
“Non intendo dimenticare, ma mettere da parte questi sentimenti forti almeno. Decidere che certe cose fanno parte della storia. Rendersi conto che la maggior parte di chi ha subito i torti e di chi ha commesso gli atti non c’è più”
“Ah. Potrei dirti tante cose, ma in inglese non ci riesco. E’ così frustrante!”
Alla fine, dopo questi ed altri botta e risposta, tutti più o meno sullo stesso tono, ho deciso di scusarmi, senza sapere esattamente per cosa lo stavo facendo.
“Mi dispiace, non volevo provocare questa reazione, sto soltanto cercando di capire. Scusami”
Alla fine, dopo questi ed altri botta e risposta, tutti più o meno sullo stesso tono, ho deciso di scusarmi, senza sapere esattamente per cosa lo stavo facendo.
“Mi dispiace, non volevo provocare questa reazione, sto soltanto cercando di capire. Scusami”
“Non sono arrabbiata. E che non mi sento a mio agio, è una sensazione molto sgradevole”
Figurati per me, volevo dirle. Ma non l’ho fatto. Dopo quest’ultimo scambio sono rimasto in silenzio. Un silenzio imbarazzante, durato l’eternità di uno o due minuti. Cercavo di pensare a qualcosa da dire. Ma a continuare con lo stesso argomento utilizzando dei toni pacifici ci avevo già provato varie volte, evidentemente senza successo. D’altra parte cambiare discorso mi sembrava un’impresa ancor più difficile e imbarazzante da portare avanti.
Joyce aveva innescato la polemica, aveva usato tutte le mie osservazioni per alzarne i toni , aveva ottenuto le mie scuse e non aveva nemmeno voluto dimostrare di averle accettate. E quel che più mi sorprendeva era la genuinità della sua agitazione. Era davvero sconvolta dal sentimento che l’aveva travolta.
Figurati per me, volevo dirle. Ma non l’ho fatto. Dopo quest’ultimo scambio sono rimasto in silenzio. Un silenzio imbarazzante, durato l’eternità di uno o due minuti. Cercavo di pensare a qualcosa da dire. Ma a continuare con lo stesso argomento utilizzando dei toni pacifici ci avevo già provato varie volte, evidentemente senza successo. D’altra parte cambiare discorso mi sembrava un’impresa ancor più difficile e imbarazzante da portare avanti.
Joyce aveva innescato la polemica, aveva usato tutte le mie osservazioni per alzarne i toni , aveva ottenuto le mie scuse e non aveva nemmeno voluto dimostrare di averle accettate. E quel che più mi sorprendeva era la genuinità della sua agitazione. Era davvero sconvolta dal sentimento che l’aveva travolta.
Io rimasi lì, sotto choc per alcuni minuti. E poi in un fastidioso stato di imbarazzo. Alla fine volevo soltanto che tutto ciò terminasse. Desideravo soltanto che ci separassimo per potermene andare a bere qualche birra, da solo.
Pagammo e ci incamminammo assieme verso il centro.
Pagammo e ci incamminammo assieme verso il centro.
“Che vuoi fare?” le chiesi.
“Qualsiasi cosa”
“Possiamo andare a bere qualcosa”
“Va bene”
Ma la ruvidità del nostro rapporto non s’era appianata e nessuno dei due aveva voglia di dare un seguito alla serata. Arrivati nelle vicinanze del suo albergo lei disse che era stanca e che sarebbe andata a dormire. Io le risposi che non c’era alcun problema e dopo averla accompagnata all’albergo la salutai, mi voltai e tirai un gran sospiro, che non so nemmeno se fosse di sollievo.
Con Aviv siamo arrivati alla fine della cena. Lui è in silenzio, come spesso gli accade. Io raccolgo gli ultimi pezzettini di pesce dalla zuppa e gli lancio un’occhiata. Mi sorride. Gli ho già raccontato dell’infelice serata con Joyce. Abbiamo discusso spesso di questo argomento, specialmente quando vivevamo assieme a Kunming. La pensiamo allo stesso modo.
Paghiamo e ci alziamo. Le birre al bar questa sera non le andrò a bere da solo. Che strana coincidenza. Avere il rendez-vous con il ristorante mukata proprio in compagnia di un israeliano. Se sono riusciti loro a lasciarsi alle spalle i problemi con la Germania, perché non potrebbero riuscirci i cinesi con i giapponesi?
E allora, con la bottiglia di Singha ghiacciata in mano, propongo un brindisi: Alla memoria storica! Al suo vero significato e alla funzione che dovrebbe avere. E al modo migliore in cui andrebbe gestita. Salute!
Con Aviv siamo arrivati alla fine della cena. Lui è in silenzio, come spesso gli accade. Io raccolgo gli ultimi pezzettini di pesce dalla zuppa e gli lancio un’occhiata. Mi sorride. Gli ho già raccontato dell’infelice serata con Joyce. Abbiamo discusso spesso di questo argomento, specialmente quando vivevamo assieme a Kunming. La pensiamo allo stesso modo.
Paghiamo e ci alziamo. Le birre al bar questa sera non le andrò a bere da solo. Che strana coincidenza. Avere il rendez-vous con il ristorante mukata proprio in compagnia di un israeliano. Se sono riusciti loro a lasciarsi alle spalle i problemi con la Germania, perché non potrebbero riuscirci i cinesi con i giapponesi?
E allora, con la bottiglia di Singha ghiacciata in mano, propongo un brindisi: Alla memoria storica! Al suo vero significato e alla funzione che dovrebbe avere. E al modo migliore in cui andrebbe gestita. Salute!