Le 5. Finalmente le 5. L’inizio dell’ora migliore a Patong, la spiaggia maggiore dell’isola di Phuket. Soprattutto ora, in alta stagione, quando gli alberghi sono pieni e i prezzi triplicati.
In spiaggia ci vengo raramente durante il giorno. Un po’ per il caldo soffocante, un po’ perché dell’abbronzatura non me ne importa niente. Ma è soprattutto per l’affollamento che la giornata in spiaggia non fa per me. Me la sento quasi addosso la pressione di quei chili pelosi di pance sudate, la puzza delle creme solari e quegli sguardi luridi.
Alle 5 è come se un fremito scorresse sulla pelle sabbiosa di Patong. I grassoni se ne vanno con le loro mistress. Le famigliole rientrano in hotel per la doccia. I gruppetti di schizzinose turiste giapponesi e cinesi sono stregate dal richiamo dello shopping.
La maggior parte dei bagnanti, dopo aver sofferto il caldo, i venditori ambulanti, le grida dei bambini e gli sbuffi di sabbia, se ne va. Proprio ora. Alle 5, giusto quando si sta alzando il sipario su uno dei tramonti più pittoreschi del mar delle Andamane.
Decine di ragazzotti thailandesi, dalla pelle scura e le membra tatuate, cominciano a chiudere gli ombrelloni e a impilare i lettini. Altri guidano delle motorette o delle jeep con le quali rimuovono le moto d’acqua, le banana boat e i paracaduti del parasailing. C’è chi fa l’ultimo bagno, chi ormeggia il motoscafo e chi si fa la corsetta serale sulla battigia.
Una ventina di ragazzi sistemano due porte e cominciano a tirare calci a una palla e a tanti stinchi.
Un altro gruppo, decisamente diverso dal primo, organizza una partita di pallavolo. Corpi snelli, muscoli plastici, in testa sculture laccate in perfetto stile Shibuya. Fanno parte del lato omosessuale del mondo della prostituzione thailandese. Sono i colleghi gay delle ragazze che lavorano nei bar di Bangla road e dintorni. Alcuni di loro sono venuti in spiaggia coi clienti della notte precedente.
Non hanno nessuna intenzione di mascherare la loro omosessualità. Atteggiamenti, movenze e sguardi sono degni di quel che da noi sarebbe considerato il più ridicolo degli stereotipi. Sembrano dei personaggi da parodia televisiva. Camminano sculettando, con un tanga carnevalesco e la manina che pende moscia dal polso piegato e tenuto alto. Ti schioccano un bacio mentre passi lì a fianco. E’ evidente che vogliono provocare la tua risata. E quando la ottengono ci si uniscono allegramente e ti chiedono se vuoi far parte di una delle due squadre.
Hanno “adottato” un bimbo svedese. Gli insegnano le tecniche del bagher e del palleggio. Le schiacciate no, è ancora troppo piccolo. Giocano bene e con eleganza. Sono bravi, allegri e simpatici, niente da dire.
Che strano. Da noi gli omosessuali scelgono spesso di mantenere un profilo basso, mentre alle coppie etero è permesso persino di limonare nel piazzale della cattedrale.
Qui invece l’omosessualità ostentata non sorprende nessuno. Niente di più normale che trovare un travestito in camice bianco alla cassa di una farmacia. Ma le coppiette di ragazzi e ragazze thailandesi non si fanno mai sorprendere a baciarsi o a stringersi la mano. Spesso in pubblico non si toccano affatto. “Sta male”, ti spiegano con pazienza.
Ad ognuno i propri tabù.
Sono le 5:10. Sembra tornata la bassa stagione. Cara, dolce bassa stagione. Finalmente ho a mia disposizione una spiaggia larga più di cinque metri. Mi siedo, apro il libro e mi lascio andare. Qualche minuto più tardi finisco un capitolo, punto il segnalibro e alzo gli occhi. Just in time. Il sole fa splash sulla schiuma lattea delle nuvole che imbottiscono le colline della baia. Lunghe fiamme tagliano il cielo di traverso, giocando in parallelo con l’orizzonte sfumato. Con la ritirata dell’orda d’alta stagione sono riapparse nella foto le palme e le altre piante dalle foglie lunghe, arcuate e fluorescenti. Da sotto i lettini e i teli mare è rispuntata la sabbia bianca. Una nuvola di polvere d’oro ci avvolge gradualmente: è tornata l’atmosfera. Quella per cui venire fino a qui ha ancora un senso, anche se con un breve tragitto in moto si può arrivare a Jesolo o a Riccione.
La magia è interrotta da un tonfo e alcune grida. Alcuni metri più in là un thailandese alla guida di un rudimentale sidecar, un motorino collegato ad un carretto con cui trasporta alcune taniche, ha investito due ragazze occidentali che camminavano coi piedi nell’acqua. Le ragazze si alzano. Sono scioccate ma stanno bene, hanno riportato soltanto qualche graffio e un paio di botte. Il thai capisce di averla fatta grossa. Forse si era distratto, o forse si era lanciato in una manovra azzardata. Si avvicina alle ragazze, si scusa, si assicura che stiano bene, mentre altra gente offre salviette e asciugamani imbevuti d’acqua. Sono pericolose queste moto. Spesso i guidatori sono soltanto dei bambini e si esibiscono incoscientemente in pericolose evoluzioni.
Poi succede qualcosa di tipico. Il colpevole è punito alla “thailandese”. Niente polizia, niente vigili. Né vecchi saggi che ammoniscono o consigliano. E’ un metodo più sbrigativo e rudimentale. A suo modo semplice. Questo è un paese in cui la boxe, non il calcio o il basket, è lo sport nazionale. Un giovane dai capelli lunghi si avvicina. Forse è un amico delle ragazze, magari lavora nello stabilimento balneare in cui affittano l’ombrellone. O più semplicemente è un estraneo che sente di dover risolvere un problema di “faccia”, ovvero di orgoglio, di dignità nazionale e personale, qualcosa che da queste parti occupa una posizione molto elevata nella scala dei valori.
E’ nervoso, si scalda, si agita, non riesce più a trattenersi. Si lancia sul conducente della moto e gli assesta tre colpi sul muso. Pochi secondi dopo sono avvinghiati nel carretto del sidecar. Qualcuno li separa, quindi il pirata della spiaggia, a sua volta preoccupato di salvare la sua “faccia”, comincia a urlare insulti. Il giustiziere riparte, prima a mani nude e poi all’arma bianca, con una bottiglia di birra in mano. Un amico lo afferra e lo trascina lontano.
Arriva qualcun altro, un uomo alto e grasso che apparentemente gode di una certa autorità. I litiganti si calmano, gli amici si scusano e si spiegano. Si fa largo un’atmosfera di prostrazione, e sul gruppo cala una coltre di timore reverenziale, fitta di sguardi che si abbassano e spallucce che si stringono. Tutto finito, tutti soddisfatti: nessun vincitore, nessun vinto. Ogni “faccia” ben salda al proprio posto. Alla Thailandese, appunto.
Sulla via del ritorno il fato piazza l’ultima appendice in coda ad una serata da riportare nel diario. Svolto l’angolo e imbocco la stradina del mio alberghetto. A fianco a me un pick up compie la stessa manovra. Sul cassone sta in piedi un elefantino. Non è molto grande. E’ della specie asiatica, non un pachiderma africano, ma qualche centinaio di chili lo scarica di sicuro sulle sospensioni del Toyota.
Da queste parti l’incontro con un elefante non è un evento straordinario. C’è un campo di addestramento in una collina a pochi chilometri da qui e spesso un cucciolotto viene portato in città, per la gioia dei turisti che pagano qualche baht per potergli infilare in bocca dei pezzetti di canna da zucchero. A questo qui però il piano non devono averlo spiegato bene. Tutta questa gente, le luci colorate e le note della musica dal vivo lo spaventano, o magari lo incuriosiscono. Fatto sta che proprio quando il mezzo mi passa a fianco si convince che lo spazio del cassone è troppo angusto e decide di avviarsi per una capatina nei dintorni. Piazza le zampe anteriori sul tetto della cabina, che cede con rumore di lamiera divelta e si abbassa di una ventina di centimetri. Gli occupanti se ne accorgono e il passeggero esce dall’auto.
L’elefante cala sul tetto anche una delle zampe posteriori, i finestrini esplodono e il parabrezza si crepa uscendo dalla sede. L’animale scivola con mezzo corpo verso l’esterno ma una zampa, o un’unghia, si e’ impigliata tra una coppia di tubi in metallo. Atterra con una capriola e, quando la proboscide svolazza frustando un paio di vasi di fiori e tutta la schiena e’ ormai a terra, anche l’ultima zampa si divincola. E’ libero e comincia a correre lungo la viuzza. Alcuni turisti, che si erano fermati a scattare foto e girare video della scena, si spaventano e scappano all’interno di un ristorante. Devono avere davanti ai loro occhi le immagini di uno di quei documentari in cui un branco di elefanti africani in preda al panico corre all’impazzata, travolgendo tutto ciò che si trova sul percorso della sua fuga.
L’elefantino invece mi trotterella davanti e sembra abbastanza tranquillo, tanto che uno degli uomini del pick up riesce a raggiungerlo e lo controlla afferrandolo per un orecchio. Ora ridono tutti, tranne il pilota del Toyota, che controlla i danni e scuote la testa.
Mi avvio verso la stanza e la doccia. Le 6 sono ormai passate da un pezzo . L’ora migliore, a Patong, è terminata davvero.