It’s business as usual, ovvero tutto a posto, l’allarme sembra essere rientrato.
Gli sforzi di tutte le parti interessate per prevenire o smorzare sul nascere ogni forma di tensione e di scontro razziale sembrano aver dato i propri frutti. Il divieto di festeggiare la vittoria elettorale è stato rispettato e in generale la gente sembra aver seguito il consiglio a non farsi prendere dal panico. Il fine settimana i locali notturni più frequentati di Kuala Lumpur erano semivuoti, ma a parte questo non è successo nulla di rilevante.
Posto che si trattava di timori legittimi e di misure sagge, viene da chiedersi tuttavia se ce ne fosse veramente bisogno. Quella di quarant’anni fa e questa di oggi sembrano essere infatti due Malesie totalmente diverse.
Nel 1969, anno della prima grande sorpresa elettorale e dei conseguenti scontri razziali, il paese era ancora alla ricerca di un suo futuro e di una sua identità. All’alba dell’esperienza come nazione indipendente, dopo decenni di dominio coloniale, ogni ambito della sfera pubblica sembrava essere dominato dal criterio di appartenenza ad un gruppo etnico.
Oggi invece una buona parte della popolazione – soprattutto quella più ricca, istruita ed influente – sembra aver maturato la consapevolezza di quanto sia importante prefiggersi una serie di obiettivi comuni e proseguire uniti sul cammino dello sviluppo sociale ed economico.
Forse, anche se lasciati liberi di scegliere, i membri della comunità cinese che sostengono il Partito d’Azione Democratica non sarebbero scesi in piazza ad esultare per la “presa” dello stato di Penang. O avrebbero organizzato i loro festeggiamenti in maniera pacata e rispettosa, alla luce della sanguinosa esperienza del ’69, quando le manifestazioni di entusiasmo sfrenato per la vittoria “cinese” provocarono la reazione delle orde di giustizieri malay, che armati di machete si lanciarono in una brutale caccia al “giallo”.
Ed è anche giusto credere che nel 2008 la maggior parte dei musulmani, le forze dell’ordine e la classe dirigente non sarebbero disposti a tollerare alcun tipo di violenza.
“Quelle migliaia di vittime sono servite almeno a dare un contributo alla formazione di una coscienza nazionale unitaria. Da allora qualcosa è cambiato, nella mentalità dei politici ma anche in quella dei membri di vario livello di tutti gruppi etnici.”
Sono le parole di “Kumar”, un dirigente aziendale di etnia indiana, uno che di razzismo e pregiudizi classisti se ne intende, avendoli provati sulla propria pelle nei pub della periferia londinese e persino nelle strade del villaggio da cui proviene la sua famiglia, un “buco” sperduto nell’entroterra del Tamil Nadu, nell’India meridionale.
A fidarsi delle dichiarazioni dei vincitori, dei vinti e persino dei pareri della stampa, che dopo anni di letargico asservimento al regime si scopre ad un tratto autonoma e audace, sembra sia arrivato finalmente il tempo del “cambiamento”. Ad un cittadino ed elettore italiano ascoltare una cosa del genere fa sempre un certo effetto, del tipo di cui ci si libera tirando un lungo sospiro.
Cambiamento? Anwar Ibrahim, uno degli artefici principali di questo “moto popolare” contro l’inefficacia del governo a fronte degli insostenibili aumenti dei prezzi e le pratiche diffuse di corruzione, è stato vice dell’ex premier Mahatir, ovvero il fautore di tutto ciò che di bene e di male è stato fatto negli ultimi due decenni. Anwar è soltanto il leader de facto del PKR, uno dei partiti della coalizione di opposizione. Non può infatti presentarsi direttamente alle elezioni e non può ricoprire incarichi pubblici per una serie di reati di cui è stato riconosciuto colpevole, tra i quali spiccano quello di “sodomia” (è musulmano) e, udite udite, quello di corruzione!
“La sua travagliata esperienza politica – culminata con l’incarcerazione senza processo – e la sua indiscussa astuzia lo hanno convinto, o forse costretto, a cambiare corso.” spiega Larry, un cinese del posto che ha vissuto per anni in Australia. E probabilmente ha anche ragione.
D’altronde è proprio su questo tema che l’opposizione ha fondato gran parte della sua campagna elettorale, se è vero che Lim Eng Guan, il leader del Partito d’Azione Democratica, alla cerimonia di insediamento come governatore di Penang, durante il discorso del giuramento ha dichiarato che i contratti pubblici d’appalto verranno assegnati a soggetti privati, al termine di campagne trasparenti e privilegiando le aziende locali. Un tentativo di mettere la parola fine alla lunga storia di appalti truccati assegnati alle aziende raccomandate dai capoccia del governo federale.
Ma c’è addirittura da mettersi a ridere quando a parlare di cambiamento sono proprio gli organi della carta stampata. I quotidiani in questi giorni dichiarano candidamente che gran parte dei meriti per l’ondata elettorale che ha ridotto sensibilmente il dominio del Fronte Nazionale, trasformando la Malesia in un paese più libero e democratico, è da ascriversi alla rete e ai suoi siti alternativi, pagine web di informazione indipendente e obiettiva.
Sembra il colpo a sorpresa del colpevole che, andando oltre il semplice atto del costituirsi, arriva addirittura ad auto-denunciarsi.
In fin dei conti comunque una delle più importanti preoccupazioni post-elettorali dei leader politici, sia a livello federale che locale, di maggioranza e opposizione, resta quella di rassicurare gli investitori internazionali e di invertire la tendenza negativa degli indici di borsa.
Venghino signori, venghino in Malesia. It’s business as usual. Che si tratti di cambiamento vero o di facciata non fa differenza. L’importante è tirare avanti, senza voltarsi o fermarsi a pensare, lungo il prospero cammino del progresso.
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