Mi raggiunge un elegante signore Malay. Indossa un abito tipico, in tessuto leggero. Lo zucchetto bianco che gli cinge la fronte ne esalta la tonalità calda e scura della pelle. Quando viene a sapere che sono italiano il volto gli si schiude in un sorriso solare. Mi comincia a raccontare di un suo viaggio in Europa. Ricorda di aver attraversato il confine a Trieste e di aver percorso a tappe la costa croata. Di aver poi viaggiato da Dubrovnik a Corfù per imbarcarsi infine in un traghetto per Brindisi.
“Sono passati tanti anni, tu non eri ancora nato.” Lo correggo dicendogli che nel '72 c'ero già, anche se non avevo ancora compiuto due anni. Cerco tra me e me di mettere a confronto le impressioni di questo malese con quelle di mio padre, che visitava la Jugoslavia alla fine degli anni '60. Le immagini di Pola, la sicurezza per chi passeggiava, gli aneddoti sugli ufficiali dei posti di frontiera, il livello avanzato di alcune politiche in contrasto con l'arretratezza in altre sfere del sociale, la bellezza del paesaggio, i riferimenti a Tito.
La conversazione si sposta su un argomento più frivolo. Il signore malay parla di cibo italiano ma affronta il tema con un'angolazione originale. Ha trovato una similitudine tra la pizza italiana e un piatto simile che ha mangiato a Damasco. È convinto che ormai sia diventato impossibile trovare al mondo qualcosa di originale, proprio di un luogo, senza influenze esterne: la terra si restringe, le culture si intrecciano, tutto è collegato e non ci sono coincidenze.

Ha una copia tascabile del Corano in inglese e comincia ad esibirsi in citazioni a memoria, con tanto di numeri di capitolo e versetto. Poi apre il volume alla pagina in questione e puntando il dito mi chiede di leggere. Io rispondo spesso con frasi di circostanza, aspetto che finisca, annuisco e sorrido.
C'è qualcosa che mi inquieta in questo ragazzo: il suo sguardo teso, la concentrazione alienante, la sensazione di un proposito che mette a disagio, pur non essendo ancora esplicito o chiaro. Fa spesso riferimento a pregiudizi contro l'Islam, a malintesi radicati nella cultura occidentale. Ho l'impressione che da me si aspetti una conferma. Di sicuro almeno in parte ciò che dice è vero. Ma tra noi due credo di essere io quello meno prevenuto. Ho qui davanti a me due musulmani praticanti, li ho incontrati entrambi in un luogo di culto: il signore malay mi ha catturato subito, mentre questo backpacker, con la sua arrogante presunzione, vacilla tra l'irritante, l'insensibile e il noioso.
Il ragazzo non si ferma e continua a parlare con il piglio del luminare ad una conferenza. Io entro in stand-by e la sua voce petulante è già un rumore di fondo nel film che sto guardando: i turisti stranieri con la tunica azzurra, le donne col velo che sfilano sussurrando, gli uomini che pregano toccando il suolo con la fronte.
Il ragazzo proverà ancora ad imporci la lezione, ma la forza d'inerzia ormai si è esaurita, l'alta marea si è già ritirata e lui, che senza citazioni non ha null'altro da dire, si farà in disparte, forse ad ascoltare. Fino a quando, al tramonto, li saluto e me ne vado.
Conserverò nel palmo la sensazione del contrasto tra la presa flaccida di quel predicatore e quella dell'elegante signore malay. Energica e calda, come il suo sorriso.
Foto "Masjid Negara" (PD) da wikipedia.org, Foto "Butterfly park" e "Cuoco cinese" di Fabio Pulito
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