(Primavera 2002)
Dai, dai! Non c'è tempo da perdere, sarà un viaggio infinito, un giorno doppio, al solo pensarci mi viene l'ernia al disco. Mi devo sbrigare, senza cincischiare. La scaletta, seguila, l'hai preparata ieri notte, quando l'afa e le zanzare non ti facevano dormire. Ingolla il pancake, trangugia il te, paga la stamberga e rotola giù dalle scale. Il mototaxi, il motorino, dove sono i ragazzini? Ce n'era sempre un vespaio quando non mi servivano! Eccone uno che ha adocchiato il pollo, mi viene incontro per tirarmi il collo.
Dai, dai! Non c'è tempo da perdere, sarà un viaggio infinito, un giorno doppio, al solo pensarci mi viene l'ernia al disco. Mi devo sbrigare, senza cincischiare. La scaletta, seguila, l'hai preparata ieri notte, quando l'afa e le zanzare non ti facevano dormire. Ingolla il pancake, trangugia il te, paga la stamberga e rotola giù dalle scale. Il mototaxi, il motorino, dove sono i ragazzini? Ce n'era sempre un vespaio quando non mi servivano! Eccone uno che ha adocchiato il pollo, mi viene incontro per tirarmi il collo.
"Serve una moto? I templi di Angkor, Sir?" Ma quale Angkor, quali templi, sono arrivato a Siem Riep una settimana fa, li ho consumati più io che i secoli e la giungla..."All'incrocio principale, dove partono i pick-up." Mi guarda inespressivo come un sonnambulo o un koala. I koala sono dotati di sole due espressioni: la mastica-eucalipto e la deglutisci-eucalipto, in entrambi i casi sembra che il sonno li stronchi. Ma come diavolo si dirà incrocio principale? La padrona dell'albergo, lei mi può aiutare. "Signora, hei! Signora, quaggiù! Mi faccia un piacere, glielo spieghi in cambogiano." La signora fa uscire cinque schiocchi dalla gola, sembra quasi che spezzi dei rami con la bocca. Il koala-mototaxi assume l'altra espressione, il suo secondo modo di sembrare inebetito. Fa un cenno con la testa, abbassa il mento di un centimetro, vorrà dire sì ho capito? O ha deglutito l'eucalipto? Non ho tempo, mi butto, salgo in sella al motorino. Accelera, parte, e vai, ha capito! Arriviamo all'incrocio, so che è quello giusto, ci saranno perlomeno un centinaio di pick-up. Quale sarà il mio? Ma chi parla l'inglese? Questo non è certo un luogo per turisti, quelli se ne vanno col pulmino pseudo-comfort, io sono arrivato tardi, posti già esauriti.
Decine di mezzi e centinaia di khmer. Sono l'unico straniero che si aggira tra gli Isuzu. C'è chi mi guarda come se fossi Pizarro, altri mi sorridono, dicono hello, ma la maggior parte non mi nota, ha ben altro da fare. Vita dura la loro, secchi, sacchi e animali, quintalate a rimorchio, dall'alba al tramonto. Finalmente lo trovo, negozio il prezzo, salgo sul cassone che è ancora semivuoto. Si scatena un putiferio, l'auto sembra un buco nero: attrae passeggeri come se fossero pianeti. Tempo due minuti e siamo pronti per partire. Stipate nel bagagliaio ci sono venticinque persone, altrettanti sacchi di riso, gabbie con galline, scatoloni e valige. Se qualcuno volesse caricare un uovo non ci sarebbe spazio se non tenendolo in mano. La posizione che assumi prima che il mezzo sia pieno ha un'importanza vitale e potrebbe costarti cara: non sarà possibile cambiarla prima dell'arrivo. Io non lo sapevo ma mi è andata bene, ho una caviglia a collo d'oca ma il resto è a posto.
Da Siem Riep alla Thailandia non è un tragitto lunghissimo ma se ci fossero i monsoni ci vorrebbe un giorno. Il tempo è bello, non c'è una buca sulla strada, il pick-up se la beve come se fosse una autobahn. A metà percorso la caviglia è indolenzita: provo a spostarla ma è perfettamente incastrata tra un sacco di granaglie e il culo di una vecchia. Temo di aver mancato di rispetto alla signora ma mi accorgo che al massimo avrò mosso un nervo. La osservo distratto, per vedere se reagisce, lei se ne accorge e mi regala un sorriso. Le labbra si schiudono su un canyon di gengive su cui spuntano tre totem macchiati di rosso. Ricorda un leone vecchio e sdentato che ha azzannato una gazzella già uccisa da un altro. Poi succede qualcosa, un colpo di scena: hanno sbranato una gallina o sollevato un bimbo. C'è un settore vuoto che si aggira nel cassone, ognuno ne approfitta ma senza esagerare, alla fine va spartito in parti quasi uguali e usando quella che mi tocca sollevo il piede. Lo guardo stupito: sembra normale, ma l'aspetto non combacia con la sensazione che provo. La sorpresa che mi assale me la spiego all'inverso. Immaginate qualcuno che alza la gamba e al posto del piede si ritrova un mattone. Ormai è fatta, mi dico con sollievo, ma non ho fatto i conti con il resto del corpo. Quando elimini un dolore di forte intensità, se ce ne sono altri spuntano in fila indiana.
Quando l'autista finalmente ferma il mezzo, qualcuno grida border e vola giù di tutto. La gente butta fuori tutto ciò che ha trasportato, può trattarsi di sacco o di fagotto con pargolo. Io non mi muovo perché non ci riesco, posso solo contare sulla mira degli altri. Vengo colpito da cianfrusaglia e soltanto di striscio. Quando il mezzo è vuoto provo a muovere un arto: sembra che ogni giunto sia fissato con dei chiodi. Per un attimo immagino che con la stessa posizione a piccoli saltelli raggiungo il fondo, mi lascio scivolare lentamente oltre il bordo, controllo la caduta e poi resto in equilibrio come quelle bambole senza gambe col peso a calotta. Quindi saltello fino al punto di confine senza mai abbandonare la posizione del loto: le guardie di frontiera potrebbero apprezzare.
Foto Angkor Wat di Tylerdurden1 (CC), da flickr
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