Arrivato a Chinatown evito Petaling Jaya e cerco un ristorante frequentato da gente del posto. Assomiglia ai posti che bazzicavo in Cina, con l'atmosfera riadattata e l'igiene migliore. Edifici squallidi mi scorrono a lato: un magnete per turisti, due fetide locande, l'occhio che rovista alla ricerca di un riferimento. Arrivo all'incrocio, mi volto confuso, poi il mirino si allinea con una serranda chiusa. Valuto l'eventualità di un cambio di zona, o un'ulteriore perlustrazione delle viuzze del quartiere, ma ho sfidato l'appetito un po' troppo a lungo e mi ritrovo appollaiato su uno sgabello sismico, in uno dei locali che avevo snobbato. La plastica si flette e il mio sedere oscilla mentre mi volto sopraffatto da un monte di rifiuti. Mi alzo inorgoglito, al diavolo la fame, e per fortuna individuo un tavolo in una zona migliore. L'oste è rozzo, un Signor Disgusto, mi strappa l'ordine dall'ugola e se ne va sgraziato. Con bacchettate leste sventro noodles e verdura, cibo blindato, a prova di sofisticazione, arroventato in uno wok proprio di fianco a me. Il Signor Disgusto, tra un ordine e l'altro, si siede ad un banchetto che mi sta davanti. Sfascia a dentate la corazza di un granchio, succhia polpa e saliva, si lecca le dita lerce con cui poco prima mi ha servito posate e cannuccia. Frammenti di carcassa gli pendono dal mento prima di affondare in una cesta di cavoli. Spero - e non ci credo - che siano scarti di cucina. Spingo via i piatti, chiedo il conto al troglodita e col bicchiere in mano capto scene disgiunte. Arriva un garzone con una bacinella e la svuota nella cesta delle posate pulite. Un cucchiaio urta il bordo e cade sul marciapiedi. Il garzone lo raccoglie, ci giochicchia mentre chiacchiera e prima di andarsene, con un colpo di polso, lo fa cadere con un tintinnio all'interno del cesto.
Brutta cosa la fame, che non ti fa ragionare. Eseguo a spanne un giochetto statistico: tutto questo l'ho visto in meno di mezzora...
Foto di Fabio Pulito
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