Isola di Sentosa, Singapore. Di Fabio |
Il cielo sembra limpido, c’è una nuvoletta laggiù, ma non è del tipo che preannucia un temporale. Forse stamattina salta. Magari, come fa spesso, sfogherà il suo pianto rabbioso soltanto quando è sera. Ecco un taxi. Ma dai, vai a piedi, stamattina sembra che la possibilità di pioggia sia scarsa. La tratta costa pochi spicci, ma non lo faccio per risparmiare. Il fatto è che mi toccherà stare seduto tutto il giorno.
Va tutto bene fino a metà strada, quando vedo la gonna ampia di una ragazza che fluttua. Dapprincipio non mi preoccupa il fosco presagio, concentrato come sono sulla pelle liscia del ginocchio, sul polpaccio affusolato, quel muscolo del basso coscia che soltanto a intermittenza sbuca dall’orlo...
Pluck! Mi ha centrato sul cucuzzolo del cranio una goccia delle dimensioni di una nespola giapponese. Pregusto l’occhiata sulla prima vetrina scura, l’immagine riflessa del mio volto accigliato, l’espressione di chi è cosciente di essere osservato. E poco importa se il voyeur alla fine è se stesso. La sensazione è di aver la testa di un vitello appena nato. Mi passo con disinvoltura una mano tra i capelli per ottenere almeno un effetto bagnato omogeneo. Strano come ci si preoccupi di certe minuzie estetiche persino di fronte alle avvisaglie di un ciclone. Alzo gli occhi al cielo: è uno specchio che riflette - con toni più arrabbiati - il colore di asfalto, metallo e grattacieli.
Faccio posare un ultimo sguardo sulle gambe della ragazza. Magari sarà l’ultima cosa bella che osserverò per un po’. Mi sbagliavo: è l’ultima cosa - ma purtroppo in assoluto - che vedrò limpidamente per qualche buon minuto.
Swosh! Una folata di vento frettolosa, sbucata da chissà dove, mi si è parata di fronte, ha aspettato che distraendomi alzassi lo sguardo e quando era sicura di arrecare il massimo danno mi ha scagliato una manciata di polvere unta sul volto. Mi sembra di essere Mr. Magoo che brancola in una camera oscura, o una talpa astigmatica immobilizzata da un riflettore.
Slap! Ma come, chi è stato, inconcepibile! Che vada a quel paese! Questo pezzo di mota mi ha schiaffeggiato di soppiatto. E solo perché ho sbandato e procedevo a tentoni. Mica l’ho fatto apposta: è colpa della polvere! Apro gli occhi di un micron, stringo la mascella in una faccia aberrata per respingere il dolore che mi si aggrappa alle palpebre. Mi osservo attorno, vedo tutto sfocato, come se fossi precipitato in una città sommersa. Poi comincio a distinguere qualche figura qua e là. L’irascibile villano che mi ha tirato una sberla è una foglia tropicale di un verde scintillante. Per chi se lo può permettere è un effetto accecante. Ha le dimensioni della foglia d'acero, quella della bandiera del Canada per intenderci, ma la consistenza e il peso sono quelli di una copia rilegata de “I fratelli Karamazov”.
Inzuppato dal cielo, accecato dal vento e con la guancia anestetizzata da una pianta grassa, comincio ad affrettarmi, mentre la pioggia aumenta. Nel giro di poco non distinguo più le gocce, è come se un pompiere mi stesse mirando con un getto. Ma dove corro, e per evitare che? Rallento il passo e cerco un riparo. I tassisti sembrano dirmi: “Non ci hai voluto quando ti chiamavamo? Ora resti lì, e va' a morì annegato!” Aspetto che smetta. Il monsone almeno ha una caratteristica positiva: l’acqua scroscia così intensamente che la riserva delle nubi-spugna si esaurisce in fretta, in meno di mezz’ora. Mi incammino, si affianca un taxi, vorrei quasi non prenderlo in segno di protesta. Ma salgo e il tassista chiede se mi sono bagnato. Allora - penso sardonico - forse non è evidente.
Entro al centro di formazione ancora grondante. La segretaria è sorpresa. “ Ma come, sta piovendo?” Ecco il paradosso di questi scrigni di cemento, con i vetri scuri, le pareti insonorizzate. Se c’è il diluvio universale e passa Noè con l’arca, non vi preoccupate di questa gente: non vi ruberà di certo il posto a bordo.
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