Ponte giapponese, Pai, di Fabio |
È il settembre del 2001. Sono crollate da poco le Torri Gemelle e da poco è crollata anche la mia prospettiva di una carriera solida, un posto fisso, le promozioni, lo stipendio assicurato, la pensione alla fine, gli annessi e i connessi. Crollata nel senso che l'ho abbattuta io, non che se ne sia venuta giù da sola o che qualcun altro mi abbia dato una mano a demolirla.
Ma non divaghiamo. È il settembre del 2001, dicevamo. Sono sbarcato in Asia da poco, deciso a visitarne la fetta più grande possibile prima di terminare i risparmi. La strada che collega Chiang Mai e Pai è lo stesso tracciato tortuoso e sottile segnato tra i monti e le valli della provincia di Mae Hong Son dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Pai sta cominciando a svilupparsi: ci sono varie guest house, qualche agenzia che organizza trekking e noleggia biciclette, dei ristorantini e un paio di bar con dei cowboy siamesi che suonano country e folk dal vivo. Le ondate di turisti thai cominceranno a inondare il paesino fra qualche anno, per ora arrivano soltanto poche decine di giovanotti stranieri al giorno. E lo fanno a bordo di uno sgangheratissimo micro-autobus costruito su misura per nani bambini, sgargiante di vernice colorata e ruggine, rumoroso, rovente e pieno come un budello costipato. I minivan ad aria condizionata non percorrono ancora la tratta, men che meno i piccoli aerei che atterrano lì vicino oggigiorno. Se non hai un'auto o una moto l'autobus dei Playmobil è l'unica alternativa che ti resta. I passeggeri stranieri si mescolano con un numero sproporzionato di thai, che poi thai nel senso stretto del termine non sono visto che appartengono quasi tutti alle minoranze etniche che popolano la zona: Shan, Karen, Akha, Lisu, Lahu. Li dividono - o li uniscono - sacchi di riso, cibo, scatoloni di elettrodomestici e utensili, pollame, prodotti ittici e altri oggetti misteriosi. I sedili da un posto e un quarto ospitano di media tre o quattro passeggeri, che nel caso siano occidentali di dimensioni standard devono trovare il modo di gestire la scomoda presenza delle loro ginocchia. Altri stanno accovacciati su un panchinone incandescente che copre gli elementi meccanici del mezzo, a lato del conducente. I restanti si accalcano nel corridoio.
Cedo il posto a una signora oberata da una pesante cesta che porta in spalla come fosse la cartella di uno studente. Sorrisi e complimenti mi inondano. È popolarità a basso costo, un lusso che ti puoi permettere soltanto in situazioni del genere. Poco dopo il mezzo comincia a scoppiettare, rallenta, poi riprende, grugnisce ancora, tossisce, sussulta e a metà di un pendio piuttosto inclinato si spegne. L'autista ci dà dentro con l'accensione, il congegno di avviamento lo asseconda lanciando urla strazianti nel tentativo di svegliare il motore ma non c'è niente da fare, costui è sordo. Bisogna scendere e considerati i problemi di temperatura, spazio e olfatto nessuno degli stranieri la prende male. I locali, come spesso accade in Asia, subiscono gli eventi senza particolari cambi di espressione facciale. Dopo una mezzora però il sollievo della sosta lascia spazio a qualche sbuffo, che in pochi minuti si trasforma in irrequietezza dichiarata. Poi accade qualcosa. Passa un pick-up giapponese, l'unico turista thai presente (col senno di poi lo definirei una sorta di pioniere) lo ferma, chiede un passaggio e poi fa un cenno verso il resto della truppa. Una decina di stranieri trova posto a bordo del mezzo che pochi secondi dopo è già sparito dietro un tornante. Chi è rimasto a terra ha capito il trucco e si organizza per fermare la prossima auto. Io sono stordito da caldo e crampi e non ho ancora deciso se restare o accodarmi. Come al solito rimando e aspetto che qualcosa o qualcuno arrivi a darmi un suggerimento. L'oracolo si presenta sotto le sembianze di Makoto, un ragazzo giapponese tutto sorrisi, energia e idee chiare. Dieci secondi in sua compagnia funzionano meglio di un bottiglione di Redbull.
"Io resto, guarda come si stanno dando da fare per riparare il mezzo e portarci a Pai. Non li posso abbandonare così..."
Per un attimo non reagisco, poi la forza della frase e del proposito mi colpisce come un pugno di Mike Tyson. Penso che sarebbe bello mettersi a piangere di fronte a certe manifestazioni di umanità, ma non mi sembra la situazione più appropriata e opto quindi per un sorriso.
"Ma sì, resto anch'io! E poi che fretta c'è, mica mi stanno aspettando..."
Non ci mettono molto a riparare il guasto e nel giro di un paio d'ore siamo a Pai.
"Io resto, guarda come si stanno dando da fare per riparare il mezzo e portarci a Pai. Non li posso abbandonare così..."
Per un attimo non reagisco, poi la forza della frase e del proposito mi colpisce come un pugno di Mike Tyson. Penso che sarebbe bello mettersi a piangere di fronte a certe manifestazioni di umanità, ma non mi sembra la situazione più appropriata e opto quindi per un sorriso.
"Ma sì, resto anch'io! E poi che fretta c'è, mica mi stanno aspettando..."
Non ci mettono molto a riparare il guasto e nel giro di un paio d'ore siamo a Pai.
Di solito quando pensiamo agli stereotipi ci vengono subito in mente immagini negative. Italiani-furbacchioni, tedeschi-antipatici, francesi-snob, giapponesi-creduloni che fanno foto. Ecco, Makoto è l'esemplificazione di uno stereotipo del Giappone che a me invece fa impazzire. L'aderenza a un'idea, a un principio, non necessariamente politico o nazionalista ma come in questo caso di solidarietà umana, di buone maniere, di riconoscenza, di comprensione e compassione. La resistenza alla tentazione, il rifiuto della via semplice, il non campare scuse, nemmeno con se stessi. Forse è un retaggio della cultura samurai, o almeno a me piace vederla così. E il tutto condito da sorriso e positività. Ecco perché dopo i cinque secondi di sbigottimento la commozione ha provato a farmi venire gli occhi lucidi.
Il grande Makoto. Proseguiremo il viaggio assieme per qualche giorno. Sarà lui a organizzare una mini-festa per il mio compleanno in un ristorantino, coinvolgendo anche le cameriere che contribuiranno con un succulento e coreografico piatto di frutta in omaggio. E sarà lui a farmi ridere di nuovo quando tornando da una corsa al bagno di una stazione degli autobus, trafelato, ansimante, con la fronte imperlata di sudore e reggendosi la pancia mentre contorce la bocca in smorfie di sofferenza, per scusarsi del ritardo se ne uscirà con: "Sorry Fabio...it waaas an e-me-ru-gen-cyyy!"
Il Grande Makoto, stereotipo d'eccezione. Rappresentante per il sud est asiatico di una nuova stirpe di samurai.Provincia di Mae Hong Son, Thailandia, settembre 2001
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