venerdì 22 ottobre 2010

Il rubinetto - Birmania

Photo by malla_mi (CC)
L'ultima cena a Pagan si è tenuta in un ristorantino affacciato su una strada sterrata, nell'area turistica. Pochi clienti, niente apostoli, soltanto qualche compagno di viaggio conosciuto di recente. Ma un Giuda birmano nascosto in cucina mi aveva già tradito.
Per fortuna la corriera si ferma in una rudimentale stazione di servizio, qualche altro chilometro e non ce l'avrei fatta. I passeggeri scendono con calma, si accendono le sigarette, stiracchiano la schiena, comprano qualcosa al bar. Io scivolo in posizione da discesa libera verso il bagno nel retro. Chiudo la porta in fretta, armeggiando impaziente con il chiavistello arrugginito. Mi strappo di dosso i pantaloni, squarcio i boxer e mi acquatto sulla turca. Osservo il legno della porta davanti a me, le grosse venature e i solchi levigati dagli anni: assomiglia alle porte delle stalle che vedevo da piccolo durante le settimane estive di villeggiatura nell'appennino calabro-lucano. Pensieri estemporanei da posizione scomoda. La distrazione è interrotta da un suono: come acqua che sgorga da un rubinetto e cade in un contenitore capiente o molto profondo, producendo un suono echeggiante. In effetti un rubinetto c'è: è quello che si usa per riempire il secchio dell'acqua con cui ci si pulisce e si "tira" lo sciacquone. Ma è chiuso, e sorprendentemente con ottima tenuta: di liquido non ne esce nemmeno una goccia. Che strano. Do un'occhiata rapida attorno ma non ne vedo altri, fino a quando una sensazione lieve dalle parti del fondoschiena mi fa venire un dubbio sorprendente: eccheccappio...il rubinetto sono io! La diarrea è talmente liquida e omogenea che faccio davvero fatica a sentirla uscire. Il flusso continua ancora per un po', dandomi l'impressione di essere un otre in pressione a cui è stata aperta la valvola. Poi - all'improvviso, senza prima diminuire di portata - si ferma. Quando mi alzo do un'occhiata alla porcellana su cui praticamente non è rimasta traccia.
Quando esco i conducenti hanno finito di riparare un guasto al mezzo (ce ne saranno vari prima dell'arrivo a Rangoon, per la disperazione di tutti i passeggeri stranieri, tranne me, per ovvi motivi di tornaconto personale).
Facciamo altre due soste a causa di qualche nuovo danno e io puntualmente apro il rubinetto e do sfogo alla pressione che mi gonfia la pancia.
La crisi successiva sfortunatamente non coincide con un problema all'autobus. Io tengo duro, stringo i denti, come dice il manuale del viaggiatore mai scritto, ma dopo un po' non ce la faccio più. Chiedo all'autista se si può fermare. Questi non capisce l'inglese ma un monaco di mezza età mi viene in aiuto. In un paese di devoti buddhisti come questo il suo intervento è perentorio e l'autobus viene così parcheggiato al bordo della strada. La folla si disperde su di un prato ombreggiato dalle fronde brillanti di alberi tropicali enormi. Mentre tutti cercano un tronco o un cespuglio per fare pipì, io mi infilo in un angolo nascosto e riapro la valvola. Sono diventato una celebrità tra i passeggeri, che mi hanno osservato mentre chiacchieravo con il monaco. Durante il tragitto mi consiglia di stare attento a quel che mangio. Mi si avvicina anche un uomo d'affari thailandese che bisbigliando per non farsi riconoscere - i siamesi, pur essendo passati secoli dalle devastanti invasioni birmane, sono ancora molto diffidenti - mi confida che certi ristoranti da queste parti hanno condizioni igieniche pessime, come se questo fosse un segreto.
A metà del viaggio - che durerà quasi dieci ore più del previsto - all'improvviso sto bene. Riesco persino a dormire, svegliandomi nel cuore della notte quando siamo di nuovo fermi e l'autista sta prendendo a martellate qualche pezzo di metallo. I birmani subiscono in religioso silenzio, gli altri turisti si svegliano e sbuffano. Finalmente posso concentrarmi su questi particolari senza che ogni cinque minuti le mie viscere mi strattonino l'attenzione: mi giro verso il finestrino, osservo la luna che illumina le risaie, le palme e lo squallore della stazione di servizio, appoggio la fronte oleosa sul vetro, lo appanno con un lungo sospiro e poi, senza farmi sentire, comincio a ridacchiare con grande gusto.

Birmania, settembre 2002

Questo pezzo fa parte della Saga della sciolta, gli altri episodi li potete trovare qui

2 commenti:

Enzo ha detto...

Non potrò mai dimenticare un pomeriggio caldissimo di Agosto del 2001. Improvvisamente colto da attacchi fulminanti di pupù, parto dalla spiaggia e affronto una salita sabbiosa che conduce al nostro residence.Scopro che i miei simpatici coinquilini se ne erano andati a Santa Teresa di Gallura chiudendo a chiava l'alloggio. Mi rifugio in un vicino pub e la dolce ragazza al bancone, impietosita mi consegna la chiave. Quella stessa ragazza a dieci anni di distanza è ancora lì, tra i miei più cari amici, su Facebook. Ed ogni volta ricorda il mio volto sofferente. Ciao Fabio..

Fabio ha detto...

È vero Enzo...non ho solo gente da maledire per le diarree che mi hanno affibbiato...ne ho anche molte da benedire per avermi dato la possibilità di mollare la zavorra!
Sempre in gamba!