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Centro Servizi Governativi - Bangkok |
Cittadino del mondo, anima cosmopolita, attitudine internazionale, spirito libero. Certo, sono espressioni suggestive. Evocano immagini di poeti e pensatori seduti a un tavolo, un bicchiere d'assenzio davanti e nella mano una penna d'oca. Hai voglia però ad autoproclamarti tale, poi devi fare i conti con chi non è d'accordo...e si tratta di un gruppo molto folto: legislatori, membri di governi centrali e locali, forze dell'ordine, ufficiali d'immigrazione, doganieri, movimenti indipendentisti e separatisti, sciovinisti, gruppi extra-parlamentari, xenofobi, fanatici religiosi, nazionalisti, campanilisti, regionalisti. Tutti, a modo loro, tendono a farti sentire un estraneo, uno straniero, un cittadino di un posto lontano, non del mondo ma di un paesino, di un quartiere, di un rione o di un isolato.
Attualmente vivo in Thailandia con un visto di studio, ottenuto tramite iscrizione annuale a una scuola di lingua a cui, come si usa da queste parti, ho dovuto corrispondere in anticipo la retta per l'intero corso. Non è poi una situazione così tragica: almeno qui l'affitto della casa lo pago ogni mese, a differenza della Cina dove mi vidi costretto a saldare il conto delle dodici mensilità, più caparra, sull'unghia - con un pacchetto di sudici bigliettoni da 100 RMB - al momento di ricevere le chiavi.
Ma torniamo a bomba: per fornire un esempio di come i succitati sabotatori agiscano in modo da farvi sentire sempre degli ospiti (non troppo) bene accetti, eccovi il racconto della mia ultima visita all'ufficio immigrazione.
Devo prendere due piccioni con una fava: il rinnovo del permesso di soggiorno e un re-entry permit per un imminente viaggio in Malesia (per la spiegazione di questi termini vedi l'appendice in coda al post). Insomma, si tratta di due pratiche, due numeri, due code, due sportelli, due timbri, due palle, due tutto. Ho bisogno di una quasi perfetta combinazione di eventi e di un allineamento astrale propizio per non essere costretto a passare tutto il giorno in ufficio.
Arrivo a un'ora scelta con casualità piuttosto accurata: non troppo presto, per evitare la fastidiosa coda davanti alla porta chiusa - con occhiate di sfida tra i presenti e tacite intese sulla sequenza di entrata - e non troppo tardi per non vedermi consegnare un biglietto con un numero di tre cifre.
Il numero non viene assegnato se non si è prima compilato il modulo. Mi munisco di quello apposito, lo riempio e ci appiccico la foto con la colla che sbava sul passaporto e i sui documenti della scuola. Ogni volta mi dico di metterne poca, ma è sempre troppa, troppo liquida, troppo unta e maleodorante.
Non ho le fotocopie del passaporto (fondamentali! L'originale per certa gente non è mai abbastanza...), ma decido di sfidare la sorte e di presentarmi comunque all'addetto che distribuisce i numeri, così da non scalare troppo indietro alla coda. Mi va bene, ottengo il 37, poi scendo al negozietto delle fotocopiatrici e fatte le copie mi avvio agli sportelli.
Hanno installato uno schermo su cui viene trasmesso un video in cui si spiega la procedura e il perché ogni pratica richieda almeno quindici minuti per essere sbrigata. Vengono fornite anche le probabili ragioni di un eventuale ritardo (riassunto: è tutta colpa del richiedente).
La trafila è complessa e una pratica deve passare attraverso un consistente numero di mani prima di essere approvata dal supervisore, ma considerata l'abbondanza di sportelli e il numero che ho in mano dovrei farcela in mattinata. È meglio però non contarci troppo, gli imprevisti sono sempre in agguato: quando sono in mano ai burocrati mi sento sempre come una pernice in un bosco battuto dai bracconieri.
La situazione è fluida, i numeri scorrono senza troppi intoppi, arrivati al 30 manca ancora parecchio alla temuta soglia del mezzogiorno, l'ora della pausa pranzo. Una signora riceve un passaporto, ma invece di togliersi dai piedi felice e sollevata si rimette a sedere. Dopo alcuni minuti ne riceve un altro. E si risiede. Mannaggia, è un'agente che rappresenta un folto gruppo di birmani, il che equivale a un solo numero per varie pratiche. Questo provoca uno slittamento piuttosto consistente del mio turno, ma dovrei ancora farcela.
Il mio momento di gloria infatti arriva in fretta: consegno passaporto, documenti e denaro, va tutto bene e torno dunque al mio posto. L'addetta ora inserirà e controllerà dei dati al computer. La tengo d'occhio, non ci sono problemi e il tutto passa all'ufficiale finanziario. Da qui in poi è difficile monitorare con precisione l'avanzamento, perché le pratiche sono impilate e c'è un nugolo di addetti che ronza attorno al tavolo. Procedo a intuito.
Quando reputo che il mio passaporto sia già sul banco del supervisore - il passaggio finale - viene chiamato il numero di una signora dall'incedere arrogante e lo sguardo torvo, i chiari segni di uno che ha un problema ma è disposto a vendere cara la pelle prima di arrendersi. Infatti la pivella del primo livello della procedura scrolla leggermente la testa e fa per spiegare qualcosa, ma l'altra la zittisce con due parole taglienti e la costringe a chiamare il suo superiore. E questo risulta essere il supervisore che era in procinto di timbrarmi il passaporto.
Me la vedo brutta. Il supervisore prende il posto della pivella, dà un'occhiata alla pratica e poi comincia sorridente e con calma a spiegare il regolamento alla signora. Questa ribatte colpo su colpo, arringando, indicando, riferendo, citando. Io trotterello, zompetto e borbotto per sfogare l'irritazione. Vanno avanti in questo modo per un periodo lunghissimo, prima che il supervisore decida di darle un'altra chance mandandola da un collega che sta altrove. E non poteva farlo prima?
Il mio turno arriva, mi consegnano il passaporto con il rinnovo, ma sono già le dodici. Esco e cerco di iniziare la pratica per la richiesta del re-entry permit prima che tutti se ne vadano a mangiare, ma è troppo tardi. È tutto chiuso, mi toccherà richiedere il numero dopo l'una.
Scendo al piano interrato di questo nuovissimo e maestoso Centro Servizi Governativi che assomiglia all'aeroporto di una grande città cinese: un'ostentazione di apparato e ricchezza, una prova di forza. Passeggio, osservo, mangio qualcosa, mi faccio un caffè e torno all'ufficio immigrazione.
Altro modulo, la colla e le foto. Dove sono le foto? Maledizione, devo averle perse stamane. Ora mi tocca scendere di nuovo. Ci metto poco: benedetta sia l'era del digitale. Una volta ascoltai qualcuno che vi si riferiva con una sorprendente espressione: "crisi". Era il proprietario di un laboratorio di sviluppo e stampa fotografica: solo a loro può venire in mente di chiamarla così.
Riprendo da dove avevo interrotto. Questa è una procedura più semplice di quella precedente e verso le due sono già fuori.
Mentre salgo sul taxi do un'altra occhiata all'edificio e penso che dovrò tornarci molto, troppo presto. Il riso e le verdurine picchiettano sulla bocca dello stomaco. Cittadino del mondo, spirito libero: chissà se anche Diogene e Voltaire dovevano rinnovare il visto ogni tre mesi.