venerdì 26 agosto 2011

Vivere sotto un ponte - Bangkok, Thailandia

Sentiamo qualcuno dire: "quel tizio vive sotto un ponte". E pensiamo subito a una scatola di cartone, al cui interno sta accovacciato un corpo peloso, dalla pelle scura, rugosa e indurita da sudore e intemperie, avvolto in un cappotto sporco, sgualcito e rappezzato, con i piedi infilati in due scarponi diversi e la testa riparata da un berretto di lana infeltrito e una sciarpa sfilacciata e incrostata di saliva seccata. Attorno stanno sparpagliati dei fagotti di stracci, dei barattoli pieni a metà di cibo stantio, pagine di giornale, tre posate unte, una tazza di metallo arrugginita, magari una bottiglia di liquore scadente. Completano la foto mentale l'immancabile puzza di piscio, escrementi d'uomo e d'altri animali, siringhe, salviette e preservativi usati. Insomma, pensiamo subito a una vita da barbone. Come molti di noi sanno però, questo mondo bizzarro è spesso capace di capovolgere persino le opinioni più diffuse.
Nel tragitto che mi porta nel cuore del business district di Bangkok - quello coi grattacieli moderni, la ferrovia elevata dello skytrain e i centri commerciali - a un certo punto devo scendere da una specie di vaporetto siamese che naviga i sordidi canali cittadini (ne parlerò in un altro post), passare sotto una larga strada e sbucare sul marciapiedi al lato opposto della via. Proprio sotto Saphan Hua Chang (Ponte della testa di elefante), alla mia destra, conficcata tra suolo e carreggiata come un cuneo che frena un pneumatico, c'è una casetta. Una trentina di metri quadrati sottratti all'architettura urbana e da essa utilizzati in cambio come colonna di sostegno.
La struttura di cemento è dotata di porte e finestre, come qualsiasi altra abitazione, ed è circondata da un recinto che segna i confini di un cortile. Qui stanno sparpagliate alcune sedie di plastica, un tamburo per cavi che funge da tavolino, moto e biciclette, bidoni della spazzatura, panni stesi ad asciugare e le solite cianfrusaglie che si nascondono nel retro di una casa.
All'interno del locale illuminato da una squallida luce al neon una famigliola si gode la brezza fresca di un ventilatore davanti a un televisore che trasmette un incontro di muay thai
Chi vive lì sotto? Un addetto alla manutenzione stradale? Il responsabile del molo del vaporetto? Una famiglia ammanicata con qualche amministratore locale? Oppure da queste parti è normale? Sinceramente non ne ho idea, ma per non dimenticare che le espressioni "vivere sotto un ponte" ed "essere un senza tetto" non si riferiscono necessariamente alla stessa condizione esistenziale ho scattato qualche foto che pubblico qui.

La casa sotto il ponte

Il cortile della casa

Il retro della casa

Un altro scorcio della struttura

martedì 23 agosto 2011

Diritto acquisito

E' un po' come credere che i folletti o gli gnomi esistano anche fuori dal mondo delle favole: non dovrebbe esserci nessun adulto sano di mente in preda a un delirio del genere. Eppure prima o poi scopri che sono molti, e non parlo di chi crede all'esistenza dei mostriciattoli, ma di chi è convinto di meritarsi un'occupazione e uno stipendio di rispetto (soprattutto lo stipendio) solo per essere in possesso di titoli di studio universitari o di qualche particolare certificazione. Se una società che funzionasse così esistesse davvero sarebbe eccessivamente artificiale, manipolata, incurante di alcuni tratti della natura umana tuttavia importanti e indelebili - piacevoli o schifosi che possano essere.
Io stesso ho conseguito una laurea e una specializzazione post-laurea in ambito universitario, nonché varie certificazioni nel settore privato. Non nascondo nemmeno che tutto ciò mi sia servito a portare a casa la pagnotta - in alcuni frangenti della mia vita più che in altri. Ma giuro di non essermi mai aspettato nulla per diritto acquisito, men che meno tramite pezzo di carta incorniciato.
Basta vivere un po' in aree del pianeta meno sviluppate dell'Europa - come ad esempio gran parte dell'Asia - per accorgersi che la natura umana è caratterizzata da un fattore conflittuale, competitivo, d'ambizione e a volte di sopraffazione che da noi è stato lenito con strumenti e metodi non sempre convenzionali (debito pubblico impazzito, assistenzialismo selvaggio, finanziamenti a pioggia, nepotismo, clientelismo, corruzione, leccaculismo, evasione fiscale galoppante, educazione al fancazzismo attendista, tanto per citarne alcuni).
Con i fondi che cominciano a scarseggiare il messaggio ultimamente comincia a farsi strada pure da noi, anche se la lezione sembra lontana dall'essere stata appresa: nessuno ti regala nulla e poco più di nulla ti spetta di diritto. In ogni ambito c'è chi langue in una carriera che striscia tra vari livelli di grigio e chi invece brilla per intraprendenza e creatività e si fa strada tra la folla inerme che lo circonda. Succede nel mondo accademico, dove convivono topi da biblioteca sedati e fuligginosi e brillanti ricercatori che iniettano nel mercato idee rivoluzionarie. Ma accade anche nel settore privato, dove coesistono il macellaio che va in pensione dopo aver tagliato la decimilionesima fettina e poggiato lo stesso coltello che usava quand'era un garzone e il fenomeno dell'imprenditoria che iniziò vendendo tre uova al mercato e domina ora un impero del pollame.
Non ho nulla da rimproverare a chi si sa accontentare di una vita semplice e non sente la necessità di rischiare tutto e di rovinarsi il fegato per ottenere qualcosa che può sembrargli superfluo. Anch'io d'altra parte sono spesso animato da tendenze simili. Ciò che mi sbalordisce è che c'è qualcuno che oscilla beatamente su una sedia a dondolo ruotando i pollici e ripete mantra vittimistici, lamentandosi nei confronti di entità astratte per non aver (ancora) ricevuto ciò che gli spettava di diritto.
I competitivi ambiziosi - che non mi sono mai stati molto simpatici - ringraziano per la resa cavalleresca. Un approccio di questo tipo è totalmente sbagliato. Concorrenti del genere vanno semmai affrontati con il disinteresse nei confronti dei loro futili obiettivi (se futili sono) o disprezzo per i loro metodi (se di metodi spregevoli effettivamente si tratta). Le lamentele piagnucolose e pedanti contro ipotetiche ingiustizie suonano molto di invidia frustrata. 
Non esiste alcuna ingiustizia, nessuno ha messo dei paletti o scritto un regolamento per il cammino che porta al successo: se ti interessa raggiungerlo muovi il culo e usa il talento con cui sei stato equipaggiato (sempre che tu ne abbia), altrimenti impara ad accontentarti dei traguardi che sei in grado di tagliare, fai una foto a quella espressione torva che hai sulla faccia, caricala in Photoshop, stampaci sopra un bel sorriso, appendila alla parete che ti sta davanti quando ti alzi dal letto ed esercitati a imitarla ogni mattina: la tua vita professionale non cambierà di una virgola ma per lo meno ne beneficerà il tuo successo in ambito sociale, nonché l'importantissima mobilità dei tuoi muscoli facciali.
Te lo dice uno che di certe cose se ne sbatte alla grande.

lunedì 15 agosto 2011

Cinema come pratica zen

Quando sono a Kuala Lumpur le giornate tendono a seguire una sequenza che ruota e si avvolge in una garza di soffice invariabilità. L'affaticamento mentale dovuto al giorno di lezione unito a quello fisico per una corsetta e due flessioni mi vengono incontro verso sera prendendomi per mano e mi accompagnano in una sala di un cinema del centro. 
Il film di per sé spesso non mi interessa: in Asia i multiplex propongono in gran parte blockbuster americani e cinesi o bobinoni locali dal contenuto sospetto. Scarto di default quelli della seconda categoria e scelgo il meno tossico tra i titoli appartenenti alla prima, ma si tratta spesso di un guazzabuglio di azione, rumore assordante ed effetti speciali: la solita palla che con l'intento di stimolare la produzione di adrenalina finisce per farti sprofondare in uno stato di stordimento ipnotico. Per quanto mi riguarda un buon film è nell'ordine: 1) storia e regista, 2) attori, 3) fotografia e musica. Gli altri ornamenti servono solo a mascherare la carenza degli ingredienti principali.
Tuttavia come dicevo il motivo che mi attira nella sala non ha niente a che fare con la passione per le arti visive: quella la soddisfo con qualche DVD. No, quello che seguo incantato mentre salgo le scale mobili sono le note di un altro pifferaio: essere inghiottito da quel mondo nero segnato da linee sghembe fatte di lucette, accorgersi vagamente del soffio d'aria condizionata che rinfresca senza ghiacciare e accomodarsi quindi al posto adiacente al corridoio, possibilmente senza vicini, scelto ad arte al botteghino, adagiandosi sulla poltroncina - comoda pur non essendo soffice - e lasciare che il brusio attutito dai pannelli fonoassorbenti solletichi i timpani durante i minuti che precedono la pubblicità. A spettacolo (spettacolo ?) iniziato ignorare senza traccia di irritazione chi chiacchiera disturbando un film che non merita rispetto, conformarsi alla leggerezza di un dramma gaglioffo o di una commedia sciocca, rilassare i muscoli, attivare l'anima, meditare, sciogliere le briglie al cervello, pensare, farsi trafiggere da una frase talmente bella che sembra l'abbia pensata un altro e annotarla sul telefono. Dare ogni tanto un'occhiata al musetto da cerbiatto della ragazza carina che siede cinque posti più in là per poi vergognarsi di questo istinto da quinta elementare e saltare direttamente alla terza media lumando le gambe della bonazza tappata con minigonna di jeans e tacchi alti, mentre il bulletto che le siede accanto è totalmente imbambolato dal susseguirsi monotono di scene vorticose e suoni frastornanti. Umettarsi le labbra con fare pervertito, ridere tra sé e sé per queste forme di umorismo auto-inflitto e mentre la tempia è colpita di striscio da un'altra frase - meno filosofica della precedente - riprendere in fretta il telefono e sfidare la propria creatività scrivendo una porcata da scaricatore di porto con i versi più poetici che si riescono a immaginare.
E' un'alternativa al Vipassana, allo Yoga Nidra, al Tantra: l'esperienza di un film scadente come pratica Zen. D'altronde si sa che le vie per il Nirvana costituiscono una sorta di infinito apparente.

domenica 7 agosto 2011

Segnali buffi/1

Spesso mi imbatto in segnali, cartelloni, scritte o etichette divertenti. Quando capita mi assicuro sempre di non andarmene senza una foto. Le propongo a rate anche qui.

No ragazzi, questo proprio no! (Appiccicata al finestrino di un taxi a Bangkok, Thailandia)

Parcheggia sicuro (in alto)...ma a tuo rischio e pericolo (in basso)! (Kuala Lumpur, Malesia)

Variante di quella precedente. (Altro taxi, sempre a Bangkok, Thailandia)

Un tempio libero...dal fumo! (Vientiane, Laos)

Una persona, un solo biglietto! Magari qualche furbetto potrebbe pensare di comprarne due, o anche tre! (Area d'imbarco ai traghetti per l'isola di Samui, Thailandia)

Sei ubriaco? Allora non guidare! Altrimenti... Segnale molto esplicito sponsorizzato da...una marca di birra! (Vientiane, Laos)

Ma in questa corriera non si può fare proprio nulla! No, aspetta, hanno dimenticato di proibire ai passeggeri di ubriacarsi! Da notare l'istigazione alla delazione tramite una taglia di 4000 baht per intascare comunque 16000 baht, una cifra spropositata. (Corriera per turisti, Thailandia)

Cliccate sulla foto per ingrandirla. In fondo al modulo da compilare alla dogana laotiana si legge: "Le nostre tasse, il nostro paese". Una variante tributaria dell'orgoglio nazionale (Aeroporto internazionale di Vientiane, Laos)

Potete trovare gli altri segnali buffi qui

lunedì 1 agosto 2011

Sicurezza vs incertezza

Foto di star5112 (CC)
Alcuni anni fa un amico che lavorava presso uno studio professionale mi raccontò che aveva lasciato quel posto e si era messo a lavorare in proprio. "In proprio?" chiesi io "Ma avevi appena cominciato, dove troverai i clienti?"
Di clienti ne aveva già due e credo si trattasse degli stessi che seguiva ai tempi in cui era impiegato allo studio. Lavorando in proprio guadagnava pressapoco lo stesso impegnando però la metà del tempo. La rivelazione del mio amico mi aiutò a capire meglio alcune delle scelte che io stesso feci anni addietro. I conti che ha fatto lui, in effetti, potrebbe farli anche qualsiasi suo collega. Perché quindi lui soltanto è arrivato a quella conclusione? La risposta ora la so bene, dal momento che si tratta dello stesso motivo per cui anch'io abbandonai la vita da dipendente ormai più di dieci anni fa: se n'è fregato della dose di incertezza che la nuova situazione avrebbe iniettato nella sua vita. Tralascerò volontariamente gli altri fattori - più o meno importanti - che possano aver fatto sentire il mio amico a suo agio anche senza avere un lavoro fisso e mi concentrerò invece su come la vedo io a riguardo.
Non vorrei essere frainteso: la sicurezza è un materasso bello comodo su cui mi piacerebbe stare sdraiato da qui fino all'ultimo dei miei giorni. Pur essendo un privilegio per il quale sarei disposto a commettere (con la fantasia!) i crimini più efferati, ciò che mi ha fatto finora propendere per una vita che ne è essenzialmente priva è ciò a cui bisogna rinunciare per ottenerla in cambio. Infilzare un oggi dietro l'altro con lo spiedo della ripetitività, della monotonia, degli orari fissi, arrostirli lentamente sopra la brace delle piccole depressioni, di un lavoro che non appassiona, della perdita dell'entusiasmo, per consumare fra qualche decennio il pasto insipido ma bilanciato della vita pianificata e della vecchiaia al riparo dagli imprevisti, è qualcosa che invece di infondermi sicurezza mi mette le vertigini. Anzi, una certezza in realtà me la trasmette: quella della demotivazione e della deriva depressiva.
Non si tratta di un'istigazione al "si vive una volta sola, facciamo dunque ogni tipo di cazzata!" Di fesserie ne ho fatte parecchie, ma mai nulla di eversivo. Il concetto in realtà mi sembra abbia una sua logica: se avessi a disposizione tre o quattro vite investirne una su un fondo sicurezza potrebbe anche sembrarmi una buona idea, ma essendo stato istruito a fare affidamento sul metodo scientifico e dal momento che non mi sono ancora imbattuto in alcuna prova concreta di una seconda o terza vita preferisco maneggiare la prima che mi capita di vivere con estrema cautela. Forse, pensandoci bene, è l'approccio contrapposto che paga un prezzo all'irrazionalità. E a qualche sorta di fobia.
Questa ovviamente non è una critica a chi ha fatto o sta per fare scelte diverse. Ci sono molti esempi di persone che conducono una vita all'insegna della sicurezza godendo al contempo della mia stima. Io però sono fatto così, e ho imparato a forza di bocconi amari e crisi dolorose che, quando possibile, è meglio se seguo il mio istinto. Soprattutto perché so che per fortuna madre natura mi ha dotato di dosi di razionalità e buon senso sufficienti a smussare gli spigoli acuminati e piallare le superfici troppo frastagliate del mio lato più impulsivo. Insomma, il mio istinto ha dato prova di meritarsi la mia fiducia. Ci sono alti e ci sono bassi, ovviamente. Ma se solo penso a quel che mi passava per la testa, strattonava il mio sistema nervoso e prendeva a calci la mia anima(*) durante certe notti insonni solo alcuni anni fa, i problemi che ho ora mi fanno sorridere.
Si tratta, dopotutto, soltanto di vivere: l'unica occupazione per cui chiunque nasce con i requisiti necessari.

(*) Lo so, mi sono dichiarato sostenitore del metodo scientifico e poi ho tirato in ballo l'anima. In effetti non sono mai stato bravo a vivere una vita priva di contraddizioni...