Li osservo mentre si esercitano sul prato del parchetto. La massificazione priva di gusto del codice che regola la loro immagine, immune ad aggiornamenti e cambi di stagione. Li guardo mentre lanciano in aria birilli, diabolo e palline di gomma, due, tre, a volte perfino quattro. Fanno ruotare aste, hula hoop, catene con stoppini collegati alle estremità - spenti ovviamente, perché cambiarli costa e il loro budget è limitato - o magari dei brandelli di stoffa per simulare le fiamme.
Le loro espressioni serie sono ciò che più mi turba. Di certo non ce l'ho con loro perché stanno giocando. Ricordo bene le dolci giornate in spiaggia, nei parchi o nelle strade di quartiere, impegnato con gli amici o da solo a sudare dietro a qualunque di tipo di palla. Le ore trascorse a friggermi il cervello pensando a un'insignificante mossa di scacchi travestita da punto di svolta esistenzale. Persino i giochini dei computer si sono portati via fette preziose della mia adolescenza. Conosco l'importanza che ha il divertimento per l'equilibrio mentale dell'essere umano, forse la conosco anche troppo bene. L'unico esame universitario che mi sembrava avesse un nome degno di una disciplina del sapere si intitola "Teoria dei giochi": decisi di non seguire quel corso soltanto dopo aver scoperto che non trattava esattamente di giochi, per lo meno non così come li intendevo io. Era soltanto l'ennesimo trucco da ingegnere.