La fuga |
La mattina ci vengono a prendere all'alberghetto con un furgoncino mezzo scassato. A bordo, oltre a noi, ci sono solo altri due turisti. Ci portano alla stazione degli autobus, dove hanno intenzione di imbarcare altri passeggeri: non c'è problema, mica contavamo di viaggiare spaparanzati su tre sedili a testa. Il flusso in entrata però è interminabile. Il mezzo ha nove posti, più un paio di sedili pieghevoli, ma questi fanno entrare dieci, quindici, venti passeggeri, e ce ne sono altri accalcati davanti al portellone. Nella fila posteriore sei o sette persone condividono quattro sedili, altri stanno seduti su tavole di legno poste in bilico tra sedili, portiere e braccioli. Anche lo spazio per i bagagli è stato occupato e le borse vengono sistemate sul tetto.
Io mi metto il cuore in pace, in fondo sono solo due ore di calvario. Mi infastidisce soltanto il fatto che abbiamo pagato il doppio o il triplo di quel che vale la tratta su questo catorcio affollato. Il mio amico però non la prende bene. Per niente bene. Si incupisce, sbuffa, comincia a commentare ad alta voce. Non è abituato a viaggiare così. E' sinceramente preoccupato, forse addirittura un po' spaventato. Pensa che in caso di incidente rimarremmo incastrati come sardine. Ovviamente ha ragione, anche perché so già come guidano da queste parti. Io però sono abituato a non lasciare mai che i pensieri prendano quel tipo di corso: ci sono posti in Asia dove o non ci vai per niente o se ci vai lasci perdere questo genere di atteggiamento. Purtroppo il suo monologo ora comincia a risvegliare la mia claustrofobia atavica. Comincio a ricordare di quando stavo impacchettato nel sarcofago della risonanza magnetica in un ospedale di Bangkok e pensavo a cosa sarebbe successo nel caso la struttura fosse andata a fuoco. Sentivo la tachicardia montare dentro di me e capivo che se non mi fossi controllato sarei incappato in una crisi di panico e avrei dato di matto. In qualche modo riuscii a calmarmi. Ce la farei anche qui, ma non sono da solo e il mio amico non ha nessuna intenzione di calmarsi. Ho l'impressione che l'unico vincolo che lo trattiene sia io: non vuole deludermi. Così non va bene. Gli chiedo se vuole scendere e lasciar perdere: lui reagisce come un ergastolano a cui hanno dato la grazia inaspettatamente. Scendiamo quindi.
Se fossi stato da solo probabilmente non l'avrei fatto. Dico probabilmente perché in realtà l'ho appena fatto, ma in situazioni simili in passato ho insistito. In casi come questo divento un po' incosciente e anche se mi rendo conto dei rischi che corro prendo tutto come una sfida, una prova da superare che la vita mi mette davanti, un prezzo da pagare per i bei momenti passati e ancora da venire. Ma è un punto di vista molto personale, totalmente irrazionale tra l'altro. Ci sono anche altre cose che mi stanno a cuore: la lealtà e la solidarietà nei cofronti di un compagno di avventura sono fra quelle. In fin dei conti mi aspetterei la stessa cosa da lui.
Ci siamo arresi quindi, e ce la diamo a gambe, sotto gli occhi increduli dei filippini. L'abbiamo fatto davvero, ma in fondo va bene così.
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