lunedì 6 giugno 2022

The show must go on - Bangkok, Thailandia

 

7eleven, chiuso, wow

Alberghetto-ristorantino

Torno a Bangkok dopo due anni di lontananza forzata, una versione macro del distanziamento sociale insomma. Molti mi chiedono com'è la situazione. Ecco un breve resoconto.

Innanzitutto ho visto solo Bangkok. Ho notizie di seconda mano da Pattaya, ma non so praticamente nulla delle condizioni di Chiang Mai, dell'Isan o delle isole a sud.

Il centro della capitale è abbastanza a posto. Vige ancora l'obbligo della mascherina ma se uno non la porta all'esterno non succede nulla. I centri commerciali sono aperti, gli alberghi e i ristoranti principali anche e i mezzi funzionano regolarmente. Va detto però che molti di coloro che trovavano impiego nel settore alberghiero e che sono rimasti a casa non hanno ancora ripreso a lavorare.

Per quanto riguarda la zona più turistica le vie principali sono piuttosto vivaci, almeno la sera, quando si riempiono di turisti (non ancora moltissimi) e (numerosissimi) ragazzi thailandesi alla ricerca di divertimento come se fosse ossigeno dopo un'apnea troppo lunga.

Prima del tramonto, quando sui marciapiedi non ci sono ancora i tavolini e le casse della musica, si notano delle serrande abbassate. Ma sono ogni giorno di meno.

Lungo le vie periferiche - oltre i canali o verso il fiume - invece la scena è molto più triste. Forse addirittura il 50% dei locali - alberghetti, ristorantini, baretti e persino i minimarket della poderosa catena 7eleven - sono chiusi. Non semplicemente chiusi, ma proprio sprangati, murati, diroccati, "discarichizzati". La zona l'ho osservata bene nel corso degli ultimi due decenni e so che molte delle attività sono frutto dell'intraprendenza e della tenacia di famigliole semplici, che si sono lasciate alle spalle il lavoro sui campi e sono venute in città armate di un carretto per vendere spiedini o bibite ai turisti stranieri, hanno investito i risparmi per ingrandirsi e hanno creato dei complessi molto redditizi. Due anni di chiusura totale però sono troppi per molti di loro: ci sono gli affitti da pagare, i debiti contratti e magari una gestione squinternata e qualche vizio costoso. Con l'avvento della pandemia hanno ripreso il carretto parcheggiato in cantina e se ne sono tornati in campagna. 

Non tutti però. Il proprietario del caffè dove vengo spesso a lavorare sorseggiando americano bollente o ghiacciato, mi racconta che non ha mai chiuso, che quando le norme imponevano il solo asporto faceva accomodare i pochi clienti nel retro: praticamente una versione thai di uno speak-easy proibizionista. Alle volte l'incasso della giornata ammontava a pochi euro, ma era sempre meglio che tornare al paesello, tramutatosi nel frattempo in un villaggio fantasma. G., un pensionato americano con cui chiacchiero spesso e che rivedo con piacere dopo questi anni di lontananza, mi confida che gli ha allungato qualche somma nei momenti più difficili.

Lo so che anche da noi è stata dura, ma se vi può servire come magra consolazione sappiate che viviamo comunque nella fettina (ristretta) più agiata del pianeta. E che per il resto dei poveri diavoli che abitano questa valle di lacrime non ci sono ammortizzatori sociali, disoccupazione, cassa integrazione, assegni vari, pensioni, procedure sanitarie onerose a costi da discount, prezzi calmierati, aiuti alle famiglie, ecc.

Per concludere con una nota più lieta, nella settimana abbondante che è trascorsa da quando sono arrivato ho notato che all'interno dei locali chiusi si è cominciato a sgomberare e ripulire, e che alcune attività hanno riaperto o stanno per farlo (la foto che segue è stata scattata nello stesso punto di quella di testa, alcuni giorni dopo).

The show must go on.

Stesso alberghetto-ristorantino, alcuni giorni dopo

 

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Caro Fabietto hai descritto bene la situazione.... Segna sempre tutto...

Fabio ha detto...

Grazie, ci provo.